Quella modernissima malattia che è il culto dell'incompetenza

Guido Vitiello

Le idee, i talenti e le ricchezze sono altrettante spie di una possibile indipendenza, che i mandanti del governo diretto non possono tollerare

La chiave delle elezioni italiane del 2018 è sepolta in un libro francese del 1910 – e quale momento migliore della vigilia per soffiar via la polvere che si è accumulata tra le sue pagine. Basterà il titolo a convincere anche il lettore più scettico che la favola parla di noi, e di domani: “Le culte de l’incompétence”. E’ la migliore prefigurazione che io conosca di un’Italia fatta a immagine di quei buoni a nulla capaci di tutto a cui un ceto dirigente suicida, un mandarinato intellettuale corrivo e una stampa allegramente irresponsabile stanno spianando la strada. Il libro di cui parlo, e che raccomando agli editori di buona volontà, è opera di Emile Faguet, repubblicano e liberale conservatore, professore alla Sorbonne e allievo di Hippolyte Taine. Il clima politico della Terza Repubblica lo spinse a formulare una critica del principio democratico spinto alle estreme conseguenze, che culmina appunto nel culto dell’incompetenza.

 

Il popolo, premette Faguet, vede con occhio ostile le disuguaglianze artificiali create dalla società, i titoli nobiliari, le ricchezze ereditate; ma è infastidito ancor più dalla disparità dei talenti naturali, che nessuna furia livellatrice potrebbe sperare di azzerare. Tutto ciò che può fare è imbrigliarle, ostacolando l’accesso alle cariche pubbliche a chiunque spicchi per ingegno o virtù: è la forma moderna dell’antico ostracismo. Per la stessa ragione disprezza la “competenza morale” di chi è più anziano e la “competenza tecnica” di chi è più esperto. E ha in dispetto le cerimonie, le buone maniere istituzionali, tutto ciò che implica il riconoscimento, foss’anche solo simbolico, di una superiorità. Vuol far tutto da solo, è nemico della specializzazione delle funzioni, “e soprattutto vorrebbe governare da sé, senza delegati, senza intermediari: il suo ideale è il governo diretto come esisteva ad Atene; il suo ideale è la ‘democrazia’, nel senso in cui la intendeva Rousseau”.

 

Le circostanze storiche e la necessità, tuttavia, lo costringono a governare per mezzo di delegati. Come venir fuori dall’antinomia? La prima via che si propone alla considerazione, dice Faguet, è il mandato imperativo: “I delegati, in queste condizioni, non sono che commissionari del popolo; depositeranno nel corpo legislativo le volontà del popolo così come le hanno ricevute, e il popolo, in realtà, governerà direttamente”. Lo spirito democratico che aspiri a svolgere fino in fondo le sue premesse cade ciclicamente in questa tentazione, ma al momento opportuno la rifugge, perché riconosce nel mandato imperativo uno specchietto per le allodole, “uno strumento molto grossolano per bisogni molto delicati”. C’è però una seconda via, più praticabile: il popolo nomina come suoi rappresentanti degli uomini che gli somiglino a tal punto “da fare sicuramente, istintivamente, quasi meccanicamente, ciò che esso stesso farebbe se formasse da solo un immenso corpo legislativo”. L’identikit di Faguet del delegato modello è persuasivo: “Un uomo insignificante quanto a idee personali, di istruzione mediocre, che condivida i sentimenti generali e le passioni generali della folla, che non abbia altro mestiere che occuparsi di politica e che, se venisse meno la carriera politica, morirebbe di fame”. Le idee, i talenti e le ricchezze sono altrettante spie di una possibile indipendenza, che i mandanti del governo diretto non possono tollerare.

 

Millenovecentodieci; ma è tutto così trasparente che non ho dovuto fare nessun riferimento alle cronache, nessun nome di piazzisti elettorali o venditori di pentole politiche, in breve nessuno sforzo di attualizzazione. Ricordando la massima secondo cui i regimi muoiono tanto per l’abbandono quanto per l’eccesso dei loro principi ispiratori, Faguet dedicava il suo ultimo capitolo, “Le Rêve”, ai rimedi per guarire dalla malattia moderna del culto dell’incompetenza, coniugando principio democratico e principio aristocratico. Di questo, però, in un’altra occasione: oggi non è tempo di sogni, è tempo di incubi.

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