L'incubo di Recchioni sul mondo grillino che ci aspetta abbaia ma non morde
La visione che racconta è quella del mondo sciagurato e definitivo in cui si immagina abbiano vinto “loro”, ossia i sostenitori delle scie chimiche, i maniaco-complottari. "La fine della ragione", western a fumetti troppo scritto
Roberto Recchioni è di pessimo umore. E chi siamo, noi, per confortarlo? E’ l’impero delle credenze, del resto, o per lo meno così battezza il mondo nuovo Gérald Bronner, sociologo di cui questo giornale pubblica ogni lunedì, a puntate, “La democrazia dei creduloni”, che de “La fine della ragione” – prima pietra della collana Feltrinelli Comics, fumetto di cui Recchioni è disegnatore e autore – si può considerare la sponda speculativa. Nel capitolo pubblicato lunedì 26 febbraio Bronner si chiede: “Perché le credenze perdurano in generale e hanno grande vitalità oggi in particolare?”. La risposta riguarda le strutture ormai irreversibili del mercato delle informazioni, della sovrabbondanza con cui ci travolge e della diminuzione del tempo di incubazione cui ci condanna. Insomma, siamo mitragliati di prodotto cognitivo e non abbiamo tempo per rifletterci. Risultato? Un guaio: il pernicioso radicamento di “errori così ampiamente condivisi da non sembrare altro che la manifestazione del buon senso” – leccare rospi giganti del Colorado River produce la medesima distorsione, pare sia la bufotenina.
Recchioni, autore e curatore di Dylan Dog, non lecca rospi, però forse avrebbe dovuto, e su questa base di partenza avrebbe di sicuro fatto faville, riuscendo a galvanizzare la visione che un giorno gli ha chiesto di essere tradotta in immagini e parole e ha scosso i suoi nervi, messi a dura prova come quelli di tutti noi, spaesati nel paese dei social-cretini, assordati dai lazzi delle più rovinose mistagogie. La visione che il fumetto racconta è quella del mondo sciagurato e definitivo in cui si immagina abbiano vinto “loro”, ossia i sostenitori delle scie chimiche, i maniaco-complottari, i massoni della stupidità, demiurghi di un mondo neoarcaico in cui fumigheranno i rimasugli della civiltà, un mondo in cui si disprezzerà la ragione e la si umilierà con la lotteria democratista delle decisioni “prese a maggioranza” anche in materia scientifica o individuale, un mondo oscuro, umbratile e devastato, insomma, il peggior incubo di Roberto (nel senso di Burioni). “La fine della ragione” lo mostra tutto fino in fondo, quest’orrore, snodandosi lungo sette capitoli e due linee narrative. La prima è quella più privata, e racconta la vicenda di una madre che parte alla ricerca di un rimedio per la malattia di sua figlia, abbandonata a un decorso privo di conforto farmacologico, del tutto soppiantato dalla saggezza popolare. La seconda è quella diciamo pubblica, del drammone-cornice, del decorso collettivo. “Come si è arrivati fino a qui?” si chiede Recchioni, e ci mostra la rabbia crescente delle orde, l’eccitazione iconoclasta, le armate arci-opinanti alle prese col rogo dei libri (“Prendete loro”, geme un tomino disperso tra tomoni di Storia e di Fisica, “io sono solo un libro di cucina!”), il default e la carestia di una società fallita che ormai ruzza nella barbarie, galoppata in lungo e in largo dai Cavalieri dell’Apocalisse e dalle loro sagome rapaci e mortifere. Per fortuna esiste il Sasso, un massiccio montuoso di rocce sedimentarie nelle viscere del quale sopravvive una comunità di scienziati, residuale fortezza della ragione in cui, però, si gioca a canasta.
Western purpureo, querela apocalittica, infernosa distopia milleriana (nel senso di Frank), la storia ha le qualità tipiche del suo autore, cioè il piglio, la ruvidità e una certa tendenza a prender sempre per il bavero. Però abbaia e non morde. Le mancano slancio, prodezza narrativa e capacità di elaborare il lutto della ragione trasformandolo in trionfo della visione, visione che purtroppo non arriva a essere davvero inquietante. E’ più vicina allo sfogo disegnato – acquerelli vermigli, taglienti linee a china, molto caps lock – che all’immersione in un incubo tra le cui spire ci si senta stritolare. Troppo scritto, forse, e poco narrato. Troppo risentito e poco rimodulato. Troppo indignato e poco allusivo, gravato da un ardore di requisitoria e afflitto da una certa genericità polemica, perché poi, alla fin fine, non basta dare a “quelli là” degli imbecilli per aver detto qualcosa più che imbecilli. La trama cova forze che non libera, a tratti promette il decollo ma quasi sempre scarica impulsivamente le sue saette al suolo e si arrende al calco invettivale. E così, paradosso dei paradossi, “La fine della ragione” assomiglia a ciò che vuol denunciare: uno sguardo che abdica, l’infertile e pigra cupio dissolvi, epifenomeno di tutte le sindromi da vaffanculo.