Tragedia moderna

Simonetta Sciandivasci

Jacopo Gassman porta in scena “Disgraced”, l’opera sull’insano rapporto tra occidente e religioni

Non c’è modo di esimersi da Dio. E non tanto perché verrà, prima o poi, a cercarci, sotto forma di paura della morte, o perché saremo noi a cercare lui per silenziare l’angoscia, fare ordine e contattare il mistero, ma perché verranno a chiederci del nostro Dio, a cercare in noi la sua traccia e a misurare il nostro essere per lui. Ci succederà soprattutto se siamo agnostici, avvocati newyorchesi, sposati a pittrici democratiche, proprietari di un appartamento nell’Upper East Side.

 

E’ tutte queste cose Amir Kapoor, protagonista di Disgraced, il testo con cui Ayad Akhtar ha vinto il Pulitzer nel 2013 e che Jacopo Gassman ha voluto tradurre e dirigere (è in scena al teatro India di Roma fino al 18 marzo), perché “esplora quanto profonde possano essere le contraddizioni e le difficoltà di rappresentazione di sé per chi sta oggi cercando una sua identità nel nuovo paese d’adozione”.

 

Amir – come Akhtar – ha origini pakistane, ma le nasconde, soprattutto a lavoro. Non gli pesa, anzi: sostiene che l’islam sia la religione della subalternità e del disprezzo verso tutto ciò che lui, invece, ama e fa coincidere con la libertà. Sua moglie Amy, au contraire, dice cose come “la libertà del mosaico viene dalla sottomissione”, mentre racconta al gallerista e critico d’arte Isaac (ebreo, naturalmente) i suoi studi sull’arte islamica. A parte questa trascurabile divergenza, tutto procede a meraviglia, finché l’inizio del disastro, nella persona di Abe, nipotino di Amir, non bussa alla porta con la taqiyah sul capo e una richiesta: difendere il suo imam, accusato di finanziare il terrorismo islamico. Amir non vuole sentirne parlare ed Amy abbraccia Abe che parla di giustizia e prima ne fa una questione universale e poi di difesa del suo popolo e della sua identità. Proprio lui che, prima di arrivare negli Stati Uniti, si chiamava Hussein (suo zio glielo ricorda non per rimproverarlo ma per dimostrargli che, con quella correzione d’identità, ha tradito lo stesso imam che vorrebbe aiutare). Qualche giorno dopo, il New York Times pubblica un pezzo impreciso dove, tra i nomi degli avvocati che sosterrebbero l’innocenza dell’imam, compare Amir Kapoor. Lui si dispera, urla che non è esatto, si riempie il bicchiere con quello che trova sul mobile bar, incastrato nella parete più bianca e spoglia di tutto il salotto, dove ci sono alcolici e una statuina di Kaliī, che in quella casa non significa niente e quindi ha diritto di cittadinanza. Amy gli dice che nessuno ci baderà ed è allora che Amir diventa un po’ simile ad Alvy Singer (Woody Allen in Io&Annie), che avvertiva antisemitismo continuamente, quando entrava in un negozio di dischi si sentiva proporre Wagner e se diceva di apprezzare la concisione, si sentiva rispondere “vorrai dire la circoncisione!”. L’America di Alvy Singer, però, non aveva conosciuto l’11 settembre e non aveva ascoltato il proprio presidente dire che il paese sarebbe entrato in guerra contro i terroristi avendo Dio dalla propria parte. Così, Amir diventa paranoico e che abbia tutte le ragioni per esserlo (Alvy non ne aveva) viene fuori quando Isaac e sua moglie vanno da lui e Amy a cena e, dall’ammirazione per le insalate della padrona di casa, la conversazione scivola su “perché questo cognome?”, “Pakistan induista o islamico?”, “Come vivi la sicurezza negli aeroporti?” (testo perfetto ed esilarante), con tutti che progressivamente si innervosiscono e anche se continuano a chiamarsi tesoro (abitudine tipica dell’occidente secolarizzato), è evidente che stanno per bombardarsi. Il primo a crollare è Amir: “ho provato orgoglio l’11 settembre: per una volta vincevamo noi”. La seconda è sua moglie, che gli confessa di averlo tradito, mentre viene fuori che i soci del suo studio intendono allontanarlo per via di quel pezzo del New York Times. E a lui non resta che comportarsi da pazzo, ma siccome è nato in Pakistan e suo nipote soffre l’America e ha letto Martin Amis ma pure il Corano, finisce con il dirsi che no, altro che pazzo, è da integralista islamico che si è comportato, mentre noi, forse, finiamo con trovare la coerenza tra la sua caduta e quella traccia del suo Dio di cui l’integrazione chiede conto.

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