Il pensiero critico non si impara solo frequentando un corso universitario
Gli atenei come argine alle fake news? Qualche osservazione
Nel dibattito della Milano Digital week (12-18 marzo) dedicato alle fake news si è sentito il solito ragionamento: per resistere alle famose fake news occorre affidarsi al pensiero critico, ai grandi giornali e ai grandi giornalisti. Nell’occasione, oltre ai grandi giornalisti, interviene anche il rettore della Bocconi che unisce al coro anche le grandi università, che il pensiero critico dovrebbero insegnare.
Lascerei perdere per una volta giornali e giornalisti, di cui si è già detto. In una battuta, verrebbe solo da dire che parrebbe strano affidarsi proprio a coloro che hanno creato e nutrito il problema. Almeno dagli anni 60 gli studi hanno messo in luce che il paradigma vero/falso poco si attaglia ai mezzi espressivi dell’informazione che invece vive dello schema nuovo/vecchio. Se c’è un campo che conosce da sempre tutti i livelli di manipolazione, è proprio il giornalismo, soprattutto quello legato ai centri nevralgici di potere. Non si dà qui un giudizio morale. Le cose stanno così, piaccia o non piaccia. Sarebbe già molto se giornali e giornalisti fossero consapevoli di questa fallibilità dell’informazione. E’ un semplice realismo che il popolo pratica naturalmente, se si pensa che a Torino il grande giornale locale è sempre stato amichevolmente chiamato “La busiarda”, la bugiarda.
Veniamo invece alle università che dovrebbero fornire un argine attraverso il pensiero critico e che vengono invitate al dibattito. La cultura insegnata nelle università ha demolito per tutta la seconda metà del Novecento il pensiero che ci sia una realtà e una verità. Si veniva da epoche di totalitarismi e la paura della connessione verità-autoritarismo era ben comprensibile. Ma certo sono state soprattutto le università a propagare un sistematico attacco a ogni pretesa di realtà di riferimento e di verità, comunque intesa, anche in versioni molto pluralistiche. Quanto al pensiero critico, quello finora insegnato consiste soprattutto nello spiegare che ci sono tanti punti di vista equivalenti e quindi che non si possono avanzare pretese veritative per il proprio; che ascoltare tante campane diverse fa diventare più ragionevoli e intelligenti perché ci fa vedere la provvisorietà e la relatività di ogni informazione e di ogni sapere; che il ragionamento dimostrativo è la sola strada per essere ragionevoli; che ogni legame forte o appartenenza è pericoloso e che ciascuno dovrebbe ragionare individualmente. Peccato che siano proprio questi insegnamenti a creare il problema attuale: dato che tutti i punti di vista sono equivalenti, con che diritto quello degli esperti dovrebbe essere migliore? Visto che occorre ascoltare tante campane, perché non ascoltarle tutte, anche quelle screditate da un’intellighenzia che ci ha insegnato a dubitare di tutto, anche di se stessa? Visto che tutto funziona per ragionamento, perché credere all’evidenza e non al complotto, che di solito è iper-argomentativo? Infine, perché confrontarsi con qualcuno se ogni relazione forte è un pericolo per l’indipendenza e l’autodeterminazione?
Per fortuna da qualche anno il mondo culturale è tornato a confrontarsi sui temi di realtà e verità, ma forse occorrerebbe una riflessione anche sul pensiero critico e sul tipo di università che proponiamo. La criticità vera e profonda non si può imparare solo frequentando un corso né essa deriva dal dubbio sistematico su ogni certezza o dall’isolamento individualistico. E’ un atteggiamento di ricerca del vero e di confronto che si impara dai maestri e dai compagni all’interno di una vita universitaria comune, cioè all’interno di relazioni forti in cui si possa dialogare con garanzia di vera libertà di parola e di pensiero, non soggetta ai ricatti del politicamente corretto. Mentre si pensa, giustamente, a come collegare di più e meglio le università al mondo del lavoro, occorre forse pensare delle università che favoriscano questo aspetto di vita comune e discussione libera tra docenti e studenti, che è stato del resto all’origine dell’avventura universitaria. Forse così si recupererebbe il valore e la credibilità del sapere esperto e dei corpi intermedi a cui si appartiene, nonché il rapporto, e non l’identità, di questo sapere con quello dei grandi giornali e dei grandi giornalisti.