Storia di un mediocre (ex nazista per caso) nella New York anni Quaranta
L’antieroe protagonista di “Io sono il fuoco” di Antonio Monda
Roma. “Io sono il fuoco”. E’ il titolo dell’ultimo romanzo di Antonio Monda (ed. Mondadori), sesto volume della sua “saga newyorkese”. Ma è anche un verso celebre di Jorge Louis Borges. Ed è tutto quello che Baldur Cranach, il protagonista del libro, non è. Non è un vincente, Cranach, fuggito da Norimberga verso l’America alla fine della Seconda guerra mondiale, alla morte della moglie convintamente nazista, dopo anni in cui, non convintamente ma per auto-diagnosticata codardia, ha aderito al nazismo in modo defilato, per uscirne con una fuga portata a termine corrompendo chiunque con l’argenteria ricevuta in dono il giorno del matrimonio. Non è un coraggioso, Cranach, anche se ci vuole del coraggio a riconoscere in se stessi i segni della vigliaccheria, della mediocrità, della non-forza, dell’incapacità di provare passione nel lavoro e nei rapporti umani.
Ma “decidere di vivere” anche se “si è scelto il lato sbagliato della vita” è l’eccezione che strappa Cranach alla monotonia asfittica dei giorni in cui, come chiunque fugga da qualcuno e da qualcosa, si sforza di non sentire e dimenticare. “Il male si propaga non scegliendo”: questo pensiero sfiora Cranach a varie riprese, assieme al rimorso di non aver salvato alcuni amici ebrei dal campo di concentramento, pur avendone avuta la possibilità. E forse anche in questo essere un Oskar Schindler al contrario, e nella crudezza con cui Cranach non elude il significato di quel non-gesto, c’è un’eccezione: non è mediocre chi comincia dal nulla a ricostruire, nella New York bella e crudele in cui ci si può perdere, ma in cui il pessimismo, pensa il protagonista, è reso impossibile dalla presenza dei grattacieli costruiti come sfida a un presente drammatico durante la Grande Depressione. “Non esiste sconfitta che non prometta una nuova vittoria”, pensa Baruch poco prima di incontrare Sinead, esule irlandese che sembra in sé una vittoria, anche se immersa nella consapevolezza del limite. Sinead non spreca neanche un attimo, non dice niente di troppo, fa inviti a mostre e concerti nella città che, a fine anni Quaranta, è più che mai un non-luogo dove si può decidere chi voler essere, senza uniformarsi all’“ipocrisia dei vincitori”.
E se Cranach, immaginando la vita misteriosa di Sinead, decide di andare oltre l’inerzia che ha caratterizzato il suo tempo americano, tempo da fuggiasco non eroico, Sinead, permettendo a Baruch di conoscerla soltanto lungo attimi e parentesi, capisce che “si perde sempre, ma provare a essere felici è la più entusiasmante delle sconfitte”. E mentre la felicità impossibile mostra il suo lato più crudo, Baruch ripensa a quando, nazista per caso, si era ritrovato a credere “che soltanto la nostra pochezza, la nostra intima, inestinguibile mediocrità, ci porta a consolarci nelle favole della democrazia, della solidarietà e dell’amore fraterno”. Sa di aver scelto “il lato sbagliato della vita”, sa di non essere mai stato fuoco, eppure al fuoco, lentamente, comincia un po’ ad assomigliare.