La performance di Eloisa Reverie Vezzosi all'interno dell'installazione "Frange reali" di Gentucca Bini. “Ho visto un re” è stata una delle esposizioni di Alcantara a Palazzo Reale

Storia di Alcantara, il tessuto impossibile

Giulia Pompili

Un simbolo del lusso italiano che però non è italiano, ma giapponese

E’ uno degli enigmi più stimolanti della filosofia del linguaggio: dare un nome a un oggetto e consegnarlo al mondo, quel significante a quel significato che ne definiscono forma e sostanza. Bisogna partire dallo strutturalismo di De Saussure, o dalla della semiologia, per raccontare la storia di un oggetto, anzi di un tessuto, che però non è un tessuto, e dovremmo dire piuttosto cosa non è, per dirvi cos’è. Se chiedete a cento persone cosa sia l’alcantara, in cento vi risponderanno che sanno di cosa state parlando, ma non saprebbero spiegarvelo. Eppure riveste i sedili di Audi e Bmw, delle auto Fiat, alcuni tra i più famosi stilisti usano l’alcantara per le loro creazioni e negli anni Ottanta c’è stato un boom anche tra i designer d’interni. Ma non c’è solo il fascino dell’ignoto, il segreto di una composizione frutto del genio ingegneristico: alcantara è anche il risultato di una sofisticata strategia imprenditoriale, un esperimento a metà tra l’Italia e il Giappone. Il primo problema, quando si inventa qualcosa, è trovargli il giusto significante. “Alcantara” è stato trovato in un brogliaccio “dentro ai cassetti di Eni”, ci spiegano. Ed è stato una specie di miracolo, perché dare un nome a quel tessuto che non è un tessuto, a quella pelle che non è una pelle, serviva qualcosa di evocativo: al qantara è una parola araba che significa il ponte. E infatti tutto ha inizio nel 1936, in un piccolo villaggio della prefettura di Shiga. E’ a Koka, nella città giapponese dei ninja, che nasce Miyoshi Okamoto, l’uomo che depositerà il brevetto.

 

Di lui ci sono poche notizie in giro, a dare qualche dettaglio sulla sua vita è lo scrittore Robert Kanigel nel libro del 2007 “Faux Real: Genuine Leather and 200 Years of Inspired Fakes”. “Laureato nel 1960 in Chimica industriale all’Istituto di tecnologia di Nagoya, Okamoto andò dritto a lavorare per la Toray, al laboratorio dell’azienda nel vecchio impianto di Ehime, sull’isola di Shikoku nel Giappone occidentale”. All’epoca, spiega Kanigel, la Toray era cresciuta e diventata una delle maggiori produttrici di fibre tessili e tessuti grazie al Rayon (il nome originario del colosso nipponico era proprio Toyo Rayon). Il rayon è una fibra derivata dalla cellulosa, una specie di seta trasparente naturale, che negli anni Sessanta però stava vivendo il suo declino: “L’acrilico e il poliestere erano i materiali del futuro. Okamoto viene quindi subito assegnato all’impianto di poliestere di Mishima, dove resta per qualche settimana in ognuno dei dipartimenti per avere un’idea del processo completo, dalla materia grezza alla fibra finale. Nel frattempo gli era stato chiesto di tirare fuori un nuovo poliestere più massiccio”. Il problema è quello che il Giappone affronta da sempre e in ogni settore: coniugare la modernità con le tradizioni. L’edilizia giapponese infatti si stava sviluppando ed evolvendo e gli edifici erano sempre più vicini al gusto occidentale. Dal punto di vista tecnico, vuol dire pavimenti più duri rispetto al tatami, cioè la tipica pavimentazione nipponica fatta di pannelli morbidi dove si cammina a piedi nudi e si dorme, con il solo ausilio del futon. Il pavimento occidentale è fatto per le scarpe, e qui invece serviva qualcosa simile alla moquette, ma più dura e consistente. Okamoto in poco tempo tira fuori un super poliestere rinforzato grazie alla combinazione di due fibre, e la Toray inizia a produrne centinaia di tonnellate l’anno. A meno di trent’anni Okamoto diventa l’idolo dell’azienda giapponese, un giovane dalla mente aperta e intuitiva, un inventore insomma. “Nel 1966 naufraga il progetto Hitelac. Hitelac era la pelle sintetica sviluppata da Toray che a Okamoto sembrava una copia della Corfam”, la finta pelle presentata nel 1963 dalla multinazionale americana DuPont. E’ con la Hitelac che la Toray era entrata nel mercato delle calzature, ma il problema – spiega Okamoto a Kanigel – era che le scarpe venivano fuori dure, durissime, e facevano male ai piedi. Così di nuovo inizia la ricerca, insieme a un suo collega, della finta pelle perfetta. Tirano fuori un materiale basato sui loro precedenti tentativi, e finiscono col produrre una specie di straccio marrone: uno straccio che lì per lì non aveva niente di particolarmente affascinante, spiega Kanigel, ma aveva una caratteristica fondamentale: era morbido e versatile. Oggi quello straccio è ancora esposto nel Centro di ricerca della Toray a Mishima, insieme con le forbici di Okamoto. E’ da quel primo esperimento, infatti, che si compie la rivoluzione dei tessuti moderni.

 

Il declino degli anni Duemila: “A mancare era soprattutto una visione globale. Eppure c’era un potenziale”, dice Boragno

In Giappone tra gli anni Sessanta e Settanta la pelle non era un grande affare – come invece lo era in occidente. Okamoto inizia a lavorare per le calzature, e racconta a Kanigel di quando chiese a un consulente occidentale di dare un’occhiata alle sue scarpe rivestite da quel nuovo materiale che sembrava uno scamosciato, una specie di nappa: “Davanti al prototipo, il consulente fece il gesto teatrale di lanciarlo via, ma poi ha preso ad accarezzarlo come fosse camoscio sulla guancia”, scoprendone la morbidezza inedita. Insomma, erano sulla buona strada. Nel 1966 decidono di presentare il brevetto: Okamoto descrive il suo tessuto come delle “isole in mezzo al mare”, per spiegare poeticamente – com’è tipico della cultura giapponese – l’intreccio di fibre che lo avevano portato a creare il nuovo materiale. Come in tutte le storie che somigliano ai romanzi, all’inizio i vertici della Toray, che gli avevano dato soltanto sei assistenti per studiare il nuovo tessuto, non credono nell’azzardo: è troppo costoso, dicono, produrre un materiale che magari poi finisce come l’Hitelac. Ma, sostenuto dal suo capo, Okamoto prosegue le ricerche, aiutato dall’avvento alla Toray dei microscopi professionali che lo aiutano a osservare i vari materiali e tessuti sin dentro le fibre. Riesce a mostrare ai vertici dell’azienda i progressi nella ricerca di una nuova “pelle artificiale”. Nel 1969 la Toray si dota di due unità in competizione tra loro. Okamoto diviene il capo del gruppo più piccolo, fatto di cinque ricercatori, concentrati esclusivamente sulla microfibra. Verso la fine del ’69, quando dopo altri tentativi sostituisce il poliestere alle fibre di nylon e trova il sistema per una tintura più efficace, nasce l’“ultrasuede”. E quasi contemporaneamente l’alcantara. Entrambi i tessuti, nello stesso anno, vengono presentati nelle sedi americane di Toray e diventano un successo globale, “grazie a un caso di scuola di ingegno personale e innovazione aziendale”.

 

L’inventore giapponese che voleva un pavimento più moderno e finì con il rivoluzionare l’industria dei tessuti

Siamo nei primi anni Settanta, gli anni del miracolo economico giapponese, quello dei grandi complessi industriali che producevano le auto, le motociclette, la tecnologia, le videocassette, i filati di poliestere. Visto dall’Europa, il Giappone sembrava – o forse era – l’economia del futuro. E’ allora che l’Italia inizia a guardare strategicamente al Sol Levante. L’Azienda nazionale idrogenazione combustibili, cioè la vecchia Anic, già sussidiaria dell’Eni, decide di costituire una joint venture con la Toray per utilizzare il brevetto e produrre le fibre di poliestere inventate da Okamoto. Nel 1970 grazie alla cooperazione tra Italia e Giappone, con l’azienda Antor – che poi diventerà Igantor, e poi ancora, nel 1981, Alcantara spa – l’Italia aumenta del sessanta per cento la produzione dei filamenti. Il capitale sociale è per il 51 per cento di quello che sarà il Gruppo Eni e per il 49 per cento dei giapponesi della Toray, fino al 1995, quando Eni vende le sue quote ai giapponesi. “Noi siamo un po’ un’anomalia”, spiega al Foglio Andrea Boragno, amministratore delegato e presidente di Alcantara spa sin dal 2004, “mentre nel settore del lusso tutto il made in Italy cade in mani straniere, noi pur essendo di proprietà di un gruppo giapponese abbiamo un percorso inverso, che segue la strategia di globalizzazione, ma basata sul made in Italy”. Oggi Alcantara Spa è un’anomalia pure per via degli enormi, mastodontici investimenti che sta facendo in Italia, in particolare nel centro di produzione e ricerca di Nera Montoro, nel ternano, in Umbria. Si tratta di 300 milioni di euro per lo sviluppo: “Dobbiamo raddoppiare la capacità produttiva, perché non stiamo più dietro alle richieste. Il mercato continua a crescere molto più di quanto possiamo produrre”. Non è difficile da credere: su Reddit è pieno di discussioni di clienti che si lamentano perché la Tesla Model 3 non è equipaggiata con gli interni in alcantara. Il problema è, semplicemente, che da Nera Montoro non esce abbastanza tessuto, e c’è bisogno di ampliare l’impianto (i lavori sono iniziati nel settembre scorso). Se nel 2016 l’azienda ha raggiunto un fatturato di 185 milioni di euro, adesso l’obiettivo dei manager dell’azienda è raddoppiare quei numeri – con assunzioni, e si parla di duecento addetti in più oltre ai seicento già attivi nella cittadella, e di un rilancio pure della parte ideativa. Nel centro ricerche di Alcantara di Nera Montoro gli ingegneri lavorano insieme agli addetti alla filiera, e molti brevetti sono stati sviluppati proprio lì, per ottimizzare funzionalità e tecnologia. E’ Boragno l’uomo dietro al rilancio del tessuto – in quel momento sgualcito da da centinaia di tentativi di imitazione – e dell’azienda che nei primi anni Duemila ha avuto un declino: “A mancare, all’epoca, era soprattutto una visione globale. Eppure c’era un potenziale. Alcuni problemi erano qualitativi, voglio dire, qualsiasi azienda ha dei problemi, ma l’importante è come vengono gestiti”, spiega Boragno. L’eccesso di produttività aveva portato l’azienda a buttare sul mercato prodotti a scapito della qualità: “Il nostro core business all’epoca era l’arredamento, ma ce lo siamo bruciato”. Boragno fa parte di quegli imprenditori che hanno attraversato tutte le fasi dell’industria italiana: dopo gli studi in Ingegneria ha fatto un master alla Pirelli, poi è passato nella segreteria di Mario Schimberni alla Montedison, poi a New York per un’azienda giapponese che vendeva prodotti nipponici in America, fino al 2004: “Quando abbiamo iniziato a ripensare l’azienda dovevamo portare la qualità ma anche qualcosa che si avvicinasse all’emozione” (come quella del consulente di Okamoto che si strofina la scarpa sulla guancia). “Vuol dire bellezza, vuol dire lusso. L’alcantara è un prodotto a metà tra la tecnologia e l’emozione, ma essere i migliori dal punto di vista qualitativo oggi non basta, it’s boring”, spiega Boragno. Che ha un rapporto particolarmente pragmatico con la cosiddetta “responsabilità sociale”. Perché Alcantara spa si è guadagnata i titoli dei giornali economici soprattutto nel 2009, quando ha ottenuto la certificazione di Carbon Neutrality, cioè con un bilancio netto di emissioni gas serra pari a zero. Come insegna la Cina, è sulle emissioni zero che si gioca l’economia: “Con l’inizio della crisi, abbiamo capito che al cambiamento strutturale della domanda si doveva rispondere con un cambiamento strutturale dell’offerta”. Quindi tutto serve all’azienda, non esiste più quella “responsabilità sociale” delle grandi e ricche compagnie? “Certo, ma anche ‘sponsorizzazione’ è una parola dalla quale ci teniamo lontani. Parliamo di partnership”, come quella col museo Maxxi di Roma, dove la designer Nanda Vigo ha creato un’istallazione tutta in alcantara. Oppure quella con Palazzo Reale a Milano, un ciclo di mostre curate da Davide Quadrio e Massimo Torrigiani che invitano artisti provenienti da diversi ambiti a misurarsi con il tessuto (e il 5 aprile prossimo si inaugura la terza tappa, “Nove viaggi nel tempo. Alcantara e l’arte nell’Appartamento del Principe”). E’ il lusso del Made in Italy che fa impazzire i giapponesi, ma non solo. Dalla Cina le richieste di alcantara raddoppiano, e solo pochi mesi fa Microsoft ha lanciato il nuovo computer della linea Surface con la tastiera che ha il tessuto prodotto a Nera Montoro. E’ il grande balzo del settore del lusso, quello dei consumatori dei prodotti elettronici, che secondo Boragno non cercano più soltanto l’aspetto tecnologico ma “la bellezza, l’emozione. Il prodotto deve avere una sua specificità”. Magari mezza italiana e mezza giapponese.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.