La resurrezione di Santa Caterina
Svelata una preziosa tavola del Quattrocento. Era sepolta in un convento. Miracolo della cultura a Palermo
Principessa egiziana di rara bellezza, santa Caterina esercitò un grande fascino sul potente imperatore Massenzio, che chiamò alla sua corte numerosi sapienti e filosofi dell’Egitto, nel tentativo di distoglierla dalla fede in Cristo, quando Alessandria era il fulcro culturale d’oriente e d’occidente, nel IV secolo. La nobile fanciulla, con la sua dialettica, riuscì a convertire al cristianesimo i dotti convenuti, suscitando l’ira di Massenzio che decise di torturarla, con l’ordine di legarla tra due ruote dentate, divenute poi il suo attributo iconografico. Secondo la Legenda Aurea, a questo punto intervenne la divina provvidenza, in forma di angelo, a interrompere il terribile martirio: le ruote esplosero e le schegge dentate uccisero gli astanti, venuti ad assistere al macabro spettacolo. Infine Caterina fu decapitata, ma dal taglio della testa sgorgò latte e non sangue e, per questo, la santa è considerata protettrice delle partorienti e dei lattanti, oltre che degli studiosi, per la sua profonda cultura filosofica. Una storia avvincente che ha alimentato il culto di una tra le sante più popolari dell’Europa occidentale.
Oggi, santa Caterina è simbolo di una rinascita culturale a Palermo, testimoniata da due iniziative congiunte: l’apertura straordinaria del monastero a lei dedicato, uno dei siti storici più affascinanti del centro cittadino, riaperto per la prima volta al pubblico lo scorso anno solo per pochi giorni, e la presentazione di una tavola fiamminga, esposta in occasione della grande mostra “Sicilië, pittura fiamminga”, a cura di Vincenzo Abbate, Gaetano Bongiovanni e Maddalena De Luca.
La tavoletta dipinta a olio, di autore fiammingo ancora ignoto, sarà esposta per quattro giorni all’interno del monastero
“Sicilië è un’operazione culturale”, osserva Patrizia Monterosso, direttore della Fondazione Federico II, “pensata per Palermo Capitale della cultura 2018, con l’obiettivo di valorizzare e far conoscere la ricchezza di tutto il territorio siciliano disseminato di chiese e musei, da dove provengono le opere eccezionalmente prestate per la mostra. Un’esposizione mai realizzata prima, che racconta di un periodo, tra fine Quattrocento e Seicento, in un intreccio tra storia, economia e arte, quando l’Isola era florida e rappresentava uno snodo commerciale importante, in collegamento con il nord Europa”. Una mostra, manifesto programmatico per l’attività della Fondazione, in accordo con l’Assemblea regionale siciliana e l’assessorato dei Beni culturali, che intende porre “una rinnovata attenzione verso i nostri tesori che troppo spesso giacciono nascosti”, continua Patrizia Monterosso, partendo dagli stessi luoghi della Fondazione Federico II: il Palazzo Reale. Un sito monumentale che sarà oggetto di una rivoluzione necessaria e da molto tempo auspicata dal pubblico e dai fruitori: l’ingresso dei turisti sarà trasferito dal portone sul retro del palazzo a quello principale, rivolto verso la città, su piazza del Parlamento, davanti al palmeto più grande del Mediterraneo, a nord di Tunisi.
I fiamminghi e il regno di Carlo V. Da mercoledì una grande mostra nelle rinnovate sale Duca di Montalto del Palazzo Reale
A partire da maggio, il pubblico potrà varcare la stessa soglia che un tempo era esclusiva dei viceré e camminare sul pavimento trasparente che permette di ammirare le fondamenta del palazzo, dove si trovano le fortificazioni puniche dell’antica Paleopoli che illustrano la stratificazione storica di questo luogo, testimone della narrazione millenaria della città. Attraverso le segrete, si potrà di nuovo accedere alla chiesa inferiore, sottostante la Cappella Palatina, realizzata da maestranze islamiche probabilmente nel primo periodo guiscardiano quando, nel 1072, i normanni della dinastia degli Altavilla conquistarono la Balarm araba e diedero avvio all’opera di cristianizzazione. Un processo senza eccessive forzature o coercizioni, che culmina nella realizzazione della Cappella Palatina, opera di sincretismo culturale: chiesa cristiana con scritte in latino, decorata con mosaici bizantini e iscrizioni in greco, con uno dei più vasti cicli pittorici islamici conservati al mondo nel soffitto di legno a muquarnas, scandito da stelle a otto punte decorate da calligrafie in caratteri cufici.
Dopo aver ammirato la magnificenza del palazzo, il pubblico potrà riposare nel verde dei giardini reali posti sopra al cinquecentesco bastione di San Pietro, ricchi di piante secolari, dai quali ammirare la Porta Nuova e l’Osservatorio astronomico sulla Torre Pisana, attivo dalla fine del Settecento. Anche questo luogo magico che conserva, tra le altre meraviglie, tre telescopi appartenuti a Giulio Fabrizio Tomasi di Lampedusa, che ispirò il personaggio del Gattopardo, sarà presto riaperto al pubblico. Si potrà rivedere il Cerchio di Ramsden, strumento astronomico unico al mondo dal quale nella notte del primo gennaio del 1801 fu individuato il primo asteroide, la Cerere Ferdinandea. Un’anticipazione delle potenzialità attrattive di questo luogo è stata data due settimane fa, durante la notte bianca dei monumenti arabo-normanni del percorso Unesco, alla quale hanno partecipato oltre quarantamila visitatori, metà dei quali hanno osservato le stelle grazie agli astronomi di Palazzo dei Normanni.
Un’attenta strategia con lo scopo di valorizzare non solo il Palazzo Reale, anche se, dichiara la Monterosso, “si partirà da qui perché per quest’anno sono previsti un milione di visitatori per il monumento cardine della storia di Palermo”, ma per “la creazione di una rete territoriale volta all’attivazione di sinergie per continuare ad adottare altre opere d’arte e di architettura dell’immenso patrimonio siciliano, come nel caso della tavola di Santa Caterina e del monastero omonimo, e restituirle alla fruizione pubblica attraverso mostre, incontri e restauri”.
“Il restauro a Palermo rappresenta un’occasione unica nel panorama nazionale non solo per il recupero materiale dei preziosi capolavori ma anche per i numerosi dati tecnico-scientifici che ne derivano, così da svelare un’arte locale voluta e prodotta da personalità artistiche e grandi maestri che hanno contribuito a fare della Sicilia uno dei territori più ricchi e variegati d’Italia”, afferma Mauro Sebastianelli, consulente per la conservazione e il restauro per l’arcidiocesi e il Museo diocesano di Palermo, nonché docente del corso di laurea in Conservazione e restauro dei beni culturali presso l’università del capoluogo. La ricerca legata al recupero di capolavori inediti, spesso ancora in attesa d’interventi di conservazione e valorizzazione, favorisce inoltre le ipotesi di attribuzione e consente di far luce sulla storia del restauro.
La mostra “racconta un periodo in cui l’Isola era florida, uno snodo commerciale importante con il nord Europa” (Patrizia Monterosso)
Questo aspetto risulta ancora più significativo nella considerazione che gli interventi del passato sono diventati parte integrante della storia di ogni opera, soprattutto a partire dal XIX secolo. “Ancora oggi a Palermo si può vivere il sogno della scoperta grazie al suo patrimonio storico-artistico che appartiene alla collettività”, annota Sebastianelli. “L’aspetto più rilevante di queste iniziative è la volontà di intervenire, nonostante le limitate risorse, sia delle istituzioni pubbliche che degli enti privati, che lavorano insieme per uno scopo comune. Ciò rappresenta una vera opportunità per rendere fruibili alcuni siti ancora sconosciuti perché da sempre chiusi al pubblico, come nel caso del complesso di Santa Caterina”, conclude Sebastianelli. Il monastero è un ricco contenitore di capolavori ancora da studiare ed è già stato oggetto d’interventi specifici eseguiti dalla Soprintendenza dei Beni culturali in collaborazione con l’Arcidiocesi della città e l’università.
Conosciuto inizialmente come “Santa Caterina delle donne”, il convento costruito nel Trecento era stato inizialmente destinato alle dame in cerca di redenzione, alle quali subentrarono le monache di clausura provenienti da famiglie nobili che lo abitarono fino a pochi anni fa, quando rimasero solo in due a vivere nell’immenso complesso. Un edificio importante perché è uno dei pochi a non aver subito gravi devastazioni nel difficile passaggio dei beni religiosi allo Stato post unitario (1866). Con i suoi ambienti pervasi di pace silenziosa, nonostante l’ubicazione vicino al traffico dei Quattro Canti, il monastero conserva opere d’arte ancora da scoprire e gli oggetti realizzati minuziosamente dalle suore, come le preziose ceroplastiche devozionali dette “scarabattole”.
Un’attenta strategia con lo scopo di valorizzare il Palazzo Reale, “perché quest’anno sono previsti un milione di visitatori”
Nella configurazione attuale, il monastero si articola accanto alla chiesa che si affaccia su piazza Bellini, tripudio di marmi mischi e tramischi e attorno a un ampio chiostro con al centro la fontana dello scultore Ignazio Marabitti, sormontata dalla statua di San Domenico. Sul lato orientale del Chiostro si trova il prospetto medievale dell’aula capitolare. Attualmente, oltre al chiostro sono visitabili la stanza della priora, la sacrestia, l’aula capitolare, il refettorio e le cucine, dove venivano preparati i celebri dolci di pasta di mandorle. Recentemente sono state recuperate anche le celle, dove le monache conducevano la loro vita austera, fatta di quiete e preghiera. Il monastero costituisce la rara testimonianza di un modo di vivere ormai dimenticato, l’immagine di un’autentica città di Dio chiusa e al tempo stesso integrata nella città degli uomini. In futuro si auspica che la salvaguardia e il recupero dei beni culturali possa compiersi pienamente affinché la cura e la conoscenza del nostro passato possa essere la base per rielaborare la nostra identità contro l’incuria del tempo e della memoria.