Una scena di Stalag 17, di Billy Wilder (1953)

L'America ossessionata da Dio e la tecnica per salvarsi (forse)

Gianluigi Ricuperati

Distopie e avventure di un “cattivo cattolico”, mentre si avvicina la fine del mondo

Chi voglia capire il Mondo Nuovo, vada a frugare in una libreria dell’Usato. Non solo per l’estrinseca lectio di umiltà che impone a ogni piccolo o esperto autore vivente, perché tempra lo spirito esaltato scoprire quanta roba buonissima alligna sugli scaffali del rimosso, del dimenticato, del lontano, del perduto. Ma soprattutto perché la fame di futuro che ha caratterizzato la produzione di conoscenza nel XX secolo ha dato origine a una messe di saggi, racconti, romanzi, opere e antologie impregnate del folto umore che allaga gli occhi di chi vede il domani, o prova a guardarlo, o sogna di averlo osservato da vicino.

 

Uno dei più preziosi tra questi talismani del possibile s’intitola Amore tra le rovine, appartiene alla penna di Walker Percy (1916-1990), romanziere superlativo statunitense cattolico sudista, noto per un capolavoro del 1962 The moviegoer (L’uomo che andava al cinema), uno dei libri prediletti di Bruce Springsteen. Volume spesso, sovracoperta nera Rizzoli, tradotto dal mitologico Bruno Oddera nel 1973, due anni dopo la sua uscita originale. In copertina brilla uno splendido disegno di John Alcorn (l’illustratore dei titoli d’inizio di Amarcord) nel quale i resti architettonici sventrati di una casa civile, con salotto e tv, vengono predati da una folla di piante aggressive, flora e fauna tropicale, fra il serpente e il pappagallo, mentre due umani senza vesti si preparano all’amplesso sotto l’influsso rosaceo di un sole che sembra una luna.

 

Il sottotitolo del romanzo, che è splendido, recita “avventure di un cattivo cattolico mentre si avvicina la fine del mondo”, e già così sembra il controcanto ideale alle nostre ossessioni distopiche recenti, oltre che il monito che niente come la chiesa di Roma ha saputo resistere ai tempi prossimi avendo ben chiaro come comportarsi in caso di Fine dei Tempi. Visto che uno dei modi interessanti di leggere un romanzo è sottoporlo ai raggi ultravioletti di un discorso musicale, vale la pena di affrontare Amore tra le rovine ascoltando uno dei picchi del ’900 musicale, anch’esso firmato da un cattolico di straordinaria modernità artistica, il compositore francese Olivier Messiaen, cui dobbiamo la meraviglia dissonante mistica di Quartetto per la fine dei tempi, scritto nel 1941 nel campo di prigionia tedesco di Gorlitz, lo Stalag VII, ed eseguito per la prima volta nel lager di fronte agli altri internati (il film di Billy Wilder Stalag 17 dipinge con accuratezza morale l’atmosfera dei campi per prigionieri di guerra tedeschi durante la Seconda guerra mondiale, e non casualmente vanta una traduzione italiana, L’inferno dei vivi, che potrebbe essere un ulteriore occhiello del romanzo di cui stiamo parlando).

 

Love in the ruins è ambientato in un’America prossima ventura (per noi retro-futuribile, a questo punto) nella quale erbacce e rampicanti coprono le facciate dei grattacieli, animali selvatici tropicali e temperati impauriscono gli abitanti di una Confederazione ormai prossima al collasso, ma in modo molto diverso dalle altre distopie fantascientifiche cui siamo abituati. Ecco l’incipit, favoloso modernista e canonico a un tempo solo: “In quegli ultimi giorni paurosi della vecchia, violenta, diletta America e del mondo occidentale che dispensava morte, avendo dimenticato Cristo ed essendo ossessionato da Cristo, ripresi i sensi in un boschetto di pini e mi si presentò la domanda: è successo, alla fine?

 

Ancora due ore e avrei conosciuto la verità. In un senso o nell’altro. O io ho ragione e si determinerà una catastrofe oppure ho torto e sono un pazzo. In entrambi i casi, la prospettiva non è tanto piacevole. Eccomi qui, dunque, la schiena appoggiata al tronco di un pino, coperto di orticaria e in attesa della fine del mondo. Subito dietro all’incrocio, nel motel in rovina, le tre ragazze mi stanno aspettando. Qualcosa sta senz’altro per accadere. O forse il problema è che qualcosa ha smesso di accadere? Forse Dio ha finalmente privato della sua benedizione gli Stati Uniti e quello che sentiamo adesso è solo lo sferragliare dell’antiquato macchinario storico, l’improvviso balzo in avanti dei vagoncini delle montagne russe mentre la catena fa presa e ci riporta nel mezzo della Storia, con le sue normali catastrofi, in alto, verso il confine, distanti da quel privilegiato binario di raccordo dove persino i non credenti ammettevano che, se non era Dio a benedire gli Stati Uniti, allora ci toccava per lo meno una fortuna incredibile”.

 

Gli Usa di Amore tra le rovine sono un cosmo frammentato, intessuto di gruppi isolati e in lotta fra loro, neri contro bianchi, radicali contro progressisti, progressisti contro repubblicani, giovani contro vecchi, città dell’est contro città del Pacifico, tutti saldamente ancorati alle proprie convinzioni, lontani gli uni dagli altri, separati da automobili e autostrade che non funzionano più, con guerre decennali e un’economia al collasso, tutto sospeso fra quella che Susan Sontag avrebbe definito più tardi in un famoso saggio “alternanza di noia e terrore”. Vi ricorda niente? Forse Walker Percy ha capito prima di tutti che il vero “inferno dei viventi” è il panorama sfrangiato che l’accelerazione della rivoluzione digitale ha imposto al ventre sensibile della nostra vita comune (non a caso nel romanzo soffrono tutti di dolori intestinali e sofferenze psichiche straordinarie): se volete trovare chi ha inventato la vita al tempo delle filter bubbles, bussate alla porta di questo romanzo eccessivo, potente, slabbrato, incendiario.

 

Il protagonista, un inventore chiamato Thomas More (!), promotore di un’innovazione tecnologica in grado di restituire sanità mentale al popolo americano, una sorta di stetoscopio dell’anima, combatte come può contro la disperazione, in un crescendo apocalittico che si consuma tutto nei giorni precedenti il 4 luglio, festa dell’Indipendenza. Il capitolo finale, intitolato Cinque anni dopo (forse da qui il super-lettore David Bowie ha preso ispirazione per la sua Five Years, canzone del 1972 incentrata sulla fine della terra cui sono rimasti soltanto le stagioni da contare sulle dita di una mano), si conclude con la cena della Vigilia di Natale, e l’invocazione di un lungo letargo invernale.

 

Forse il sonno, notoriamente “ristoratore”, è l’unica possibile apocatastasi (la teoria di Origene ripudiata dalla chiesa secondo cui dopo la fine del mondo tutti i peccati verranno perdonati, e avrà luogo una “restaurazione finale” – peraltro proprio in America nel Settecento ci furono diverse tenzoni teologiche nelle sette cristiane tra “universalisti e restoratoristi”) nel nostro mondo di spiriti fuori orario eternamente e internamente connessi. Sui canali di comunicazione del gigante dell’economia digitale Netflix è apparsa qualche tempo fa la frase “il nostro unico concorrente è il sonno”. Forse il vero amore, tra le rovine che vediamo crescere intorno a noi assumerà le sembianze di una splendida dormita.

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