Le amate rughe del tempo
Ulisse, Penelope e uno scrittore immerso nell’“Odissea” sotto lo sguardo del padre. Conversazione con Daniel Mendelsohn su Trump e i Ciclopi, il matrimonio, la morte e l’utilità di leggere i classici
“Perché non abbiamo familiarità poetica con la nostra antichità?” si chiedeva Mario Luzi. “Non parlo del fitto ricorrere mitologico e antichistico… dico proprio familiarità cioè confidenza, assimilazione ai modi e alle misure del vivere quotidiano e contemporaneità indiscriminata, coincidenza del passato illustre con il presente anonimo, naturale reciprocità di significazione tra il mitico e l’odierno, ossia il banale”. Queste domande gli nascevano, per contrasto, dalla lettura di Kavafis, che sapeva fondere la vastità mitica con le strade delle nostre città. Ed è proprio andando a incontrare il traduttore di Kavafis che mi tornano in mente, mentre attraverso Roma e il “Tevere fatale” di Ungaretti. Come spesso succede, i libri e gli autori sono ragnatele. E’ stato grazie alla romanziera Mary Renault che scoprii per la prima volta gli articoli di Daniel Mendelsohn. I
Ebreo e omosessuale, filologo, traduttore, docente, ha raccontato l’Olocausto ed Euripide. Il suo ultimo libro: “Un’Odissea”
romanzieri storici spesso ricorrono al mero elenco di dati e dettagli eruditi, ma non è questo che ci convince davvero. Bisogna saper evocare i morti. Nella Grecia classica di Mary Renault avevo trovato lo stesso respiro che mi era stato comunicato da mille particolari di letture e studi, un orizzonte che al tempo stesso li comprendeva e superava tutti, elusivo e inconfondibile. Non ero stato il solo a doverle tanto. Era stato così anche per un giovane di Long Island, ebreo e omosessuale, che sarebbe diventato traduttore, docente, filologo e giornalista, raccontando l’Olocausto ed Euripide, le sfide nella scoperta complessa della propria identità e il sostegno unico che, in questo viaggio solitario, può sempre giungere dalla voce di uomini e donne scomparsi da migliaia di anni.
Nel suo ultimo libro, Un’Odissea (Einaudi), Mendelsohn racconta un suo ennesimo corso universitario sul poema omerico cui stavolta si aggiunge uno studente d’eccezione: l’anziano padre. E l’ospite, che nutre parecchie obiezioni sull’eroismo del protagonista (“mente e tradisce la moglie!”), non ha affatto intenzione di restare in silenzio ammirato del figlio professore. Polifemo, gli incantesimi di Circe, i dilemmi di Telemaco, la pazienza scaltra di Penelope… Omero così si rivela ancora una volta uno spazio, un grande mare, nel quale stavolta a navigare sono addirittura tre generazioni, insieme, un focolare intorno a cui raccogliersi e tendere le mani, grazie a cui raccontare e raccontarsi, dove il mito e l’esistenza quotidiana e particolare si intrecciano e leggono a vicenda. Ed è esponendoci a questo specchio antico, terso e al tempo stesso ambiguo, che dialogo con Mendelsohn sull’importanza di queste eredità narrative e immaginative per noi, oggi.
“Il momento più commovente della letteratura occidentale: il rifiuto di Odisseo di restare con Calipso, il suo voler tornare da Penelope…”
“Mendicanti e stranieri / sono mandati da Zeus… Zeus, protettore degli ospiti e dei forestieri”. E’ questo l’appellativo costante del Re dell’Olimpo nell’Odissea. Quando incontriamo Polifemo percepiamo subito di avere a che fare con un bruto, prima ancora che divori i compagni di Odisseo, proprio perché afferma di irridere le leggi dell’ospitalità. Nel mito, questa stessa Roma in cui stiamo conversando era stata fondata da un profugus mediorientale che fuggiva da una città in fiamme. Oggi sono davvero molti i “supplici” sulle nostre coste. Chi sta vincendo in occidente, il rispetto di Zeus protettore degli ospiti o i Ciclopi? “Uno dei grandi temi dell’Odissea è proprio l’ospitalità, questa grande legge che sovrasta tutta la cultura greca, nella vita vera e non solo nella letteratura, la xenia, la relazione con l’ospite e lo straniero. Negli incontri di Odisseo vedi tutta una gamma di possibilità diverse, dalle accoglienze più fastose a Polifemo, il quale non sfama gli ospiti, se li mangia lui stesso, il che è altamente simbolico. Alcuni oggi sono Ciclopi, il nostro presidente Trump è certamente un Ciclope, tuttavia i popoli delle isole greche non lo sono affatto, e i tedeschi, che nel Novecento sono stati Ciclopi eccome, adesso non lo sono affatto. Anche oggi fronteggiamo tutta una gamma di reazioni diverse. E L’Odissea stessa è un testo troppo bello per offrirci una visione piatta della realtà, perché il primo a infrangere le leggi dell’ospitalità è proprio Odisseo, che entra senza permesso nella caverna del Ciclope e mangia. E dobbiamo attenerci a questa complessità e sottigliezza”.
Sia L’Iliade che l’Odissea si concludono con due pianti, diversi e sovrapposti. Il pianto di Achille e Priamo per le morti di Patroclo ed Ettore – due nemici che piangono insieme – e le lacrime di Odisseo e Telemaco che si sono ritrovati. “I greci amavano i lamenti e le lacrime. Virgilio, che resta il miglior lettore di Omero, l’ha compreso benissimo e ha parlato delle lacrimae rerum. Anche qui, c’è complessità. I finali di entrambi i poemi comprendono lacrime ma anche banchetti. Comprendono e riflettono la vasta complessità della vita stessa, un insieme commisto di gioia e dolore, anche se vengono considerati i fondamenti rispettivamente della tragedia della commedia”.
Nel libro Mendelsohn racconta il segreto del letto improvvisato di suo padre, ricavato da una porta. Il lettore di Omero ricorda subito il dettaglio segreto di un altro letto, il talamo di Odisseo e Penelope, costruito in modo noto solo a loro. Sono proprio questi dettagli amati, che fanno ripartire Odisseo dalle lande dove gli era stata promessa l’immortalità? Egli preferisce tornare a casa, ad abbracciare spazio e tempo, a voler invecchiare e ingrigire con Penelope. Quelle rughe nascondo a loro volta una vita di dettagli insieme, di gioie e dolori. “Assolutamente sì. Il momento più commovente di tutta la letteratura occidentale è il rifiuto di Odisseo di restare con Calipso, il suo voler tornare da Penelope a invecchiare con lei. Perché ciò significa andare a morire, e lui lo sa. E’ anche il più grande tributo che un marito dedichi alla propria moglie in tutta la letteratura. Sia lui che Achille mostrano che devi essere nel mondo per essere un eroe. Alla morte di Patroclo, Achille smette di mangiare e dormire, paralizzato in una condizione non umana, quasi divina. Quando accetta la morte del suo amato Patroclo, riprende anche a mangiare come gli altri uomini, e ciò vuol dire anche disporsi nuovamente a morire, presto. Sa di essere il prossimo. Ed è proprio questo che rende il viaggio interessante. Non c’è viaggio interessante senza ostacoli e una destinazione finale , che per noi è la morte. Questo rende le esistenze degli dèi così triviali al confronto. In entrambi i poemi c’è il superamento di quella aspirazione e convinzione tipicamente adolescenziale dell’immortalità, e l’accettazione della propria condizione mortale”.
“Se un ragazzo vuol essere ‘pratico’, studi da ragioniere. Ma quando suo padre morirà, quel diploma non gli servirà a niente”
Mendelsohn è un ebreo innamorato della cultura classica. Domando se, come Erri De Luca, noti delle analogie tra Odisseo e Giacobbe. Sono entrambi eroi sagaci, grandi ingannatori, ed entrambi usano una pelle di montone (Giacobbe per farsi credere il fratello Esaù e ricevere la benedizione di Giacobbe, Odisseo mettendosi sotto un ariete eludendo così la mano del Ciclope Polifemo). “Eppure li sento diversi. Nel racconto biblico c’è un elemento di gratuità, d’irrazionale pregiudizio. Perché Giacobbe viene preferito a Esaù? Il che ci riporta alla preferenza originaria: perché Abele viene preferito a Caino? Il testo non dà risposte, e in questo certamente riflette il grande mistero della vita. Perché alcune persone sono fortunate e altre no? Ma nelle astuzie di Giacobbe c’è un elemento di crudeltà. Quando inganna il vecchio padre cieco per strappargli la primogenitura…” per iniziativa della madre, intervengo, e Mendelsohn sorride. “Già, le madri ebree! Invece gli inganni di Odisseo hanno sempre un fine razionale, quello di mettersi in salvo. Ed è interessante che l’unico inganno gratuito, quello che inscena col vecchio padre Laerte, è proprio quello che interrompe perché non resiste oltre e si commuove”.
Uno dei personaggi indimenticabili dell’Odissea è certamente la dea Atena. Il teologo Von Balthasar sosteneva che il rapporto Atena-Odisseo è la relazione umano-divina più tenera e intensa del mondo antico. Io aggiungo che mi è sempre sembrata una potente editrice di New York che resta intrigata da uno scrittore squattrinato, di cui intuisce tutto il potenziale, e che decide di sostenere. Insomma, è evidente quanto Odisseo le piaccia. Quando parla con lui usa addirittura il duale, la forma verbale di chi pensa e agisce come una, cosa sola, una squadra. In una classe recente, hanno sostenuto che la vera homofrosune (intesa relazionale profonda, a tutti i livelli) di Odisseo è con Atena! Ride. “A un certo livello è vero. Ragionano nello stesso modo, agiscono nello stesso modo, sono una squadra. E’ quasi un buddy movie. Eppure ecco nuovamente la questione degli obbiettivi. Atena è una vergine di professione. E’ una grande relazione, ma senza rischi. Sempre safe. Apprezzano la compagnia l’uno dell’altra perché sanno che non potranno mai apprezzarla in quel senso. Gustano l’umorismo reciproco, e si stuzzicano, ma non succederà mai niente. Almeno con Calipso e Circe scopano davvero, per cui sai dove sta andando la relazione, e, proprio per questo, perché non soddisfa. E’ sempre difficile farlo capire agli studenti che dicono ‘O mio Dio! Hai una bellissima dea che vuole fare l’amore con te sempre!’. Eppure lui, che ogni sera ci va a letto ‘senza volerlo più’, la mattina dopo piange sulla riva del mare. E io spiego loro: se avete una relazione solo fisica con qualcuno, assai presto diventa terribilmente noiosa. Per questo Penelope è perfetta, perché è corpo e mente. Tutte e due le cose. Uno studente però mi ha fatto molto divertire sostenendo che Atena, proprio perché Odisseo le piace così tanto, per questo fa addormentare Penelope che piange il marito lontano. Non per compassione, ma per metterla a nanna e avere altro tempo per divertirsi con Odisseo stesso!”. Gli ricordo l’espressione che Pavese attribuisce a Circe che ricorda Odisseo: “Così ridicolo e bravo”. E’ una sintesi efficace di come l’atemporalità guarda ai nostri tentativi fragili, eppure misteriosamente compiuti. “Certo, anche se ripeto ancora che, in fin dei conti, sono gli dèi stessi a risultare davvero ridicoli. Niente conta davvero per gli dèi. In questo senso sono i filosofi perfetti”.
Gli ricordo la scena delle Rane in cui Dioniso si spaventa, confida di essersi cagato addosso e salta in braccio al suo sacerdote, che doveva sedere sempre in prima fila, promettendo di pagargli da bere. E questo in una dimensione che non era minimamente blasfema, ma parte d’un rituale religioso. Come notava Maurizio Bettini, il fatto che per noi risulti inconcepibile o oltraggioso pensare uno spettacolo simile in cui Cristo balzi in grembo a un vescovo misura tutta la differenza tra gli antichi politeismi e il rapporto tra umorismo e religione oggi. “Sono sempre a disagio nel rispondere a questi temi, in quanto ateo. Mi sembra tutto così assurdo. Certamente, sono gli dèi che non hanno senso dell’umorismo quelli che creano tutti i problemi. Ed è un altro aspetto geniale dell’antropologia greca aver concepito un sistema di divinità che comprende l’umorismo. Se proprio devi avere una religione, è bene averla così”.
“I lettori commettono l’errore di credere che il tuo racconto sia tutta la tua vita, davvero. In realtà, la plasmi come una statua d’argilla”
C’è un grande dibattito In Italia sul mantenimento o meno degli studi classici, sulla loro presunta utilità (come disciplina mentale, come bagaglio di nozioni per certe professioni) o meno. Ma, come ammoniva Nietzsche, se si inizia a sostenere che la cultura è utile si finisce col sostenere che l’utile è cultura. “Sono assolutamente d’accordo con Nietzsche ed evito sempre il tema della presunta rilevanza della cultura classica. Tutto il bello e l’interessante è rilevante. E’ questa la sua auto-giustificazione. Certo, nello specifico, è una affermazione ingenua, perché per noi c’è un motivo aggiunto. Se vogliamo comprendere noi stessi e la nostra mentalità, e da lì che dobbiamo partire. Negli Usa invece tutti sostengono che se studi latino diventi un avvocato migliore ecc… Non si studiano per questo. Sostenerlo vuol dire entrare in territorio nemico, usare le sue categorie. Ma ecco invece il mio argomento per la rilevanza degli studi classici: se un ragazzo vuol essere ‘pratico’, che studi come ragioniere. Ma quando suo padre morirà, quel diploma non gli servirà a niente. L’Odissea invece sì. Che cosa è più pratico, dunque?”.
Una delle scene fondamentali dell’Odissea è quando Odisseo ascolta il cantore di Alcinoo che rinarra la guerra di Troia, e piange. La sua vicenda, la sua vita e quella di chi ha amato e avversato, è diventata mito. Anche Mendelsohn adesso può aprire una qualsiasi copia del suo libro, e trovare sulla pagina stampata ciò che ha vissuto con suo padre e i suoi studenti. Cosa accade a una storia personale quando diventa racconto? “E’ una questione davvero interessante su cui parlare. Quella scena in Omero è anche una parabola sull’arte e la sua differenza dalla vita. Quando scrivi delle memorie, usi la vita e la trasformi in narrativa. I lettori commettono l’errore di credere che il tuo racconto sia tutta la tua vita, davvero. In realtà, la plasmi come una statua d’argilla. Non che sia falsa, ma non è tutta la verità. Anni fa, quando avevo un appuntamento con qualche ragazzo e raccontavo “Sai, ho dei fratelli…”, c’era chi mi rispondeva “Oh lo so. Ho letto il tuo libro.” E io pensavo “No, non lo sai.” Se dicessi tutto sarebbe vero, ma sarebbe una pessima storia. C’è differenza tra ciò che è accaduto e la storia di ciò che è accaduto”.