Sedere e mirare Lavia che ci dice Leopardi
Al teatro Vascello di Roma uno spettacolo con le parole del poeta proposte in una formula scuola-concerto pop
All'inizio, è un'interrogazione. "La donzelletta vien?", pubblico: "Dalla campagna!". "In sul calar del sole, col?", pubblico: "Suo fascio dell'erba!". Alla fine, è un concerto pop: la platea dice L'Infinito, Gabriele Lavia dirige e, poi, soddisfatto, conclude: "Adesso, il mondo è un po’ migliorato". Un paio di signore gli chiedono di recitarlo, lui da solo, L'Infinito, dicono proprio "E dai e su e faccelo", ma la risposta è "No, L'Infinito non si può recitare". Vale anche per tutte le altre poesie di Giacomo Leopardi e, infatti, lo spettacolo (al teatro Vascello di Roma, solo per due giorni, il 5 e il 6 aprile) si chiama “Lavia dice Giacomo Leopardi”. Non interpreta o legge o recita: dice. Leopardi funziona perfettamente in questa formula scuola-concerto pop, lui che non andò mai né a scuola né a un concerto pop, e però era un ragazzo come quelli che oggi ci vanno, era "un giovane che non è mai entrato nella maturità ed è rimasto nella profondità della giovinezza", un giovane favoloso.
Nell'ora e mezza che passa sul palco, in abito scuro e t-shirt, Lavia dice, di filato, alcune liriche dei Canti, A Silvia, La Sera del dì di festa, Il Sabato del villaggio, Le Rimembranze, Il Passero solitario. Ogni tanto si ferma. Racconta. Quella volta che una guida turistica, a Recanati, gli spiegò che la siepe, quella che "dell'ultimo orizzonte il guardo esclude" non c'è più, perché adesso c'è un muro e la cosa è una di quelle ironie della sorte molto amare, perché il Conte Montaldo Leopardi, padre di Giacomo, aveva parecchio discusso con le monache di clausura, le quali avevano comprato una sua proprietà per farci un convento, ma a patto che potessero costruire un muro che le separasse dal mondo e dagli occhi di quelli fuori, poi però il conte le aveva ammorbidite e convinte a evitare il muro, che sarebbe stato uno scempio per gli occhi: una siepe sarebbe stata sufficiente a proteggerle e lì, nella radura dell’eremo che così fu creato, il solo ad essere ammesso, quando le sorelle rientravano nelle loro celle, era il giovane favoloso. Dunque, dove non poterono le monache di clausura, ha potuto l'amministrazione comunale di Recanati. Fine aneddoto. Breve postilla: pochi giorni fa, qualcuno ha scritto su TripAdvisor - dove "Il colle dell'Infinito" è una meta parecchio recensita - che "non c'è più l'infinito, il posto è suggestivo per la sua storia, ma nulla più, la vista è ostruita dagli alberi, non c'è una panchina, ci stanno lavorando, speriamo che la situazione migliori".
Chi lo sa se è colpa della scuola, se esistono italiani che non pensano che il punto de l'Infinito è proprio l'ostruzione, è proprio che senti tutto quando non vedi niente e che è quella la condizione che chiarisce come l'unica possibilità che ha l'uomo sia "affogare nell'insondabile, nel mistero del perché siamo qui" e che Leopardi gli interminati spazi non li vedeva: li mirava. Forse, è anche un po' colpa di Leopardi, che la realtà del reale la fotografava sempre tutta, nel dettaglio, e non per descriverla, bensì per trovarne l'inganno e tentare di estrarlo. Così, può capitare di leggere di una donzelletta che, tornando dalla campagna con un mazzo di fiorellini, passa davanti a una vecchietta che fila e pensare che si tratti di uno straordinario quadro bucolico, anziché del trailer perfetto, uno dei migliori di tutta la poesia mondiale, della provvisorietà della vita, della giovinezza, della felicità, della luce, della festa, dell'essere umano. O di leggere d’un falegname che lavora ben dopo il tramonto e credere che si tratti di una scena di mirabile operosità, anziché della costruzione, in gran segreto, della bara per un suicida. Allo stesso modo, siccome L'Infinito è un quadro en plein air, può sembrare che l'immensità che descrive sia reale e vista, testimoniata.
Una volta, durante una presentazione di un libro sulla sua carriera, Gabriele Lavia ha detto che recitare significa inabissarsi e risalire "per restituire i raggi dell'oscuro", per svelare il velato e che, quindi, "il compito dell'attore non è essere chiari, ma essere scuri". Quello che riesce a fare, dicendo Leopardi, è proprio inscurirlo, adombrarlo, complicarlo, che è probabilmente la sola cosa che si può fare con un autore, come lui, tanto consapevole che “la realtà del reale vela la verità”. E non lo fa di certo con la parafrasi (che dovrebbe essere bandita, soprattutto a scuola): gli basta, con la voce, restituire il suono giusto delle parole, al quale Leopardi badava eccome - altrimenti non avrebbe mai potuto scrivere il più grande endecasillabo della poesia italiana, quello che fa "dolce e chiara è la notte e senza vento" e che Lavia, quando lo dice, quasi s'incazza per quanto è perfetto e infatti dopo un po’ urla: "era un pazzo, capite?".
Non si va ad ascoltare Leopardi a teatro per capirlo o per vederlo, ma per sedere e mirare. Garantito che, poi, vi sovvien l'eterno.