Edouard Manet, "Il suicidato"

L'unico problema filosofico veramente serio è la logicità del suicidio

Sergio Garufi

Fino a che punto la vita vale davvero la pena di essere vissuta?

L’incipit di un libro è un tentativo di adescamento, e quello de Il mito di Sisifo di Albert Camus è sicuramente uno dei più azzeccati. Vi si afferma in modo perentorio che esiste un solo “problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta significa rispondere al quesito fondamentale della filosofia”.

 

Va da sé che il suicidio logico, frutto di un ragionamento condotto sulla propria pelle, appartiene quasi esclusivamente a personaggi di finzione, a uomini di carta e inchiostro come il Kirillov dei Démoni di Dostoevskij. Nel quasi però c’è spazio per un caso che fece scalpore, quello di Philipp Mainlander, un filosofo ottocentesco la cui ferrea determinazione impressionò scrittori del calibro di Borges e Cioran. Mainlander era un allievo di Schopenhauer che, a soli 35 anni, scrisse Filosofia della redenzione, un saggio in cui avanzava la tesi che la storia dell’umanità non è altro che l’agonia dei frammenti di un Dio che si autodistrusse, e, coerentemente col suo pensiero, appena lo pubblicò si tolse la vita impiccandosi.

 

Queste metafisiche nere affondano le radici in alcuni miti cosmogonici orientali, come quello di Prajapati, la divinità indù che diede inizio al mondo mediante il sacrificio di se stesso, ma anche in occidente ci fu chi sposò quelle tesi blasfeme. John Donne per esempio, secondo il quale la morte volontaria di Cristo – volontaria perché avrebbe potuto sottrarvisi – prefigurava l’ipotesi di un Dio che crea il mondo per erigervi il proprio patibolo.

 

Altrettanto occidentale ma molto più attuale, per il tentativo di coniugare scienza e religione, fu l’ipotesi formulata pochi anni fa dal filosofo Anacleto Verrecchia, per il quale “l’esplosione del Big Bang farebbe pensare a un Dio che si sia sparato”. 

 

In genere, le motivazioni per cui ci si uccide non rispondono a ragionamenti astratti, ma a fattori psicologici molto personali, così come il metodo a preoccupazioni di ordine pratico, ma per molti scrittori il suicidio spesso rappresenta una sorta di suggello alla loro esistenza e alla loro opera, e talvolta anche un messaggio per chi rimane. Per questo le biografie e i necrologi che glissano sui modi e le circostanze del “tragico gesto”, nell’intento di non assecondare la morbosità del lettore, in realtà tappano la bocca definitivamente a chi con quel gesto intendeva “dire” qualcosa di importante.

 

Yukio Mishima in questo senso è illuminante. Non si può negare che il rituale del seppuku, il suicidio del samurai cui ricorse con tanto di discepoli al seguito, esprimesse un monito e un’esortazione rivolti ai suoi connazionali, rei di essersi venduti l’anima per un’occidentalizzazione che rinnegava i sani valori tradizionali nipponici. Ecco perché scelse di uccidersi in quel modo, ed ecco perché volle che il suo atto fosse pubblico.

 

Antonia Pozzi optò per una soluzione più intima e raccolta, ma nel suo caso furono il luogo e il momento, più che la modalità della sua morte, ad essere altamente simbolici. All’Abbazia di Chiaravalle Antonia giunse infatti in bicicletta la mattina del 2 dicembre 1938, quando la coltre di neve aveva coperto tutta la campagna intorno alla chiesa. Aveva ventisei anni e portava con sé un barattolo di pasticche. Le ingoiò con una sorsata d’acqua e poi si sdraiò sulla neve fresca in attesa della fine, come in un estremo anelito di purezza, sotto quei fiocchi candidi che aveva fatto cadere spesso nei suoi versi, come per regalare al mondo una possibilità di ristoro nel sogno, una tregua, un attimo di redenzione dalla volontà di vivere.

 

Chi aveva perso da tempo la volontà di vivere era David Foster Wallace. A spingerlo a impiccarsi nel patio della sua casa di Claremont il 12 settembre 2008 fu una depressione terribile che lo tormentava dai tempi del college, e a nulla valse l’amore della sua famiglia e della moglie, oltre all’affetto degli amici e di legioni di lettori in tutto il mondo, perché per uscirne doveva farcela da solo. Il crollo giunse proprio quando contò solo sulle sue forze, smettendo con gli psicofarmaci che assumeva quotidianamente. Lui che a dispetto del suo successo si era sempre considerato un impostore, e che volle uccidersi come Giuda, l’impostore per eccellenza, conosceva bene il paradosso di quella condizione, per cui “vuoi raggirare chiunque incontri, eppure al tempo stesso in qualche modo speri sempre di imbatterti in chi non si lascia raggirare”, come disse in Caro vecchio neon.

 

La morte volontaria come un atto di verità, come la rivelazione della propria natura, appartiene anche a Franco Lucentini, che si buttò dalla tromba delle scale della sua abitazione a Torino. Carlo Fruttero parlò di “suicidio da bricoleur”, nel suo articolo commemorativo sulla Stampa il giorno dopo la fine del suo fratello d’inchiostro, incentrando tutto il pezzo sul metodo scelto e su come questo ne rispecchiasse il carattere e il modo d’intendere la letteratura, fatto più di spirito pratico che di grandi teorie, ma a molti altri colpì invece la somiglianza con un altro suicidio d’autore torinese, quello di Primo Levi, che lo precedette di tre lustri. In questo senso Lucentini preferì andarsene con una citazione, un addio virgolettato, più in sintonia col suo carattere schivo, quasi a voler togliere enfasi al più enfatico dei gesti. Perché le coincidenze vanno tenute in conto. Nel caso di Amelia Rosselli la data non è un caso. Quell’11 febbraio in cui si buttò dal quinto piano di via Corallo era lo stesso giorno e mese in cui si tolse la vita Sylvia Plath 33 anni prima. E che non si tratti di una coincidenza, ma di una identificazione proiettiva, lo rivela non solo il numero delle traduzioni che la Rosselli fece delle poesie dell’americana, ma pure un suo saggio intitolato Istinto di morte e istinto di piacere in Sylvia Plath, in cui si legge: “Che poi la ricerca artistica all’alto livello al quale portò la Plath, e a una tale intensità, sia un rischio mortale di per sé, purtroppo ogni artista lo sa bene”.

 

Nella sua autobiografia dedicata a Majakovskij, Esenin e Cvetaeva, Boris Pasternak ci ricorda che “ci si uccide non per tener fede alla decisione presa, ma perché è insopportabile questa angoscia che non si sa a chi appartenga, questa sofferenza che non ha chi la soffra, questa attesa vuota, non riempita dalla vita che continua”. Ed è pensando a questa sofferenza, a questo supplizio assurdo che li attanagliò fino a convincerli di farla finita, che ci riesce difficile “immaginare Sisifo felice”, come invita a fare Camus nella chiusa del suo saggio. Ma se proprio dovessimo sforzarci di farlo, se potessimo concepire Sisifo felice del suo strazio routinario, allora l’unico suicidio possibile resterebbe quello vagheggiato dal mite Camillo Sbarbaro, quando nei suoi Scampoli scrisse: “E’ aperto un concorso per segretario comunale a Scarnafigi. Se vi concorressi? Immagino un paese tagliato fuori dal mondo; un grosso borgo, piatto, terribilmente banale. Vi arriverei in un giorno di pioggia. Vi sposerei una donna insignificante, ad esempio un’economa. Nessuno saprebbe più nulla di me. Mi preparerei una vecchiaia perbene. Accarezzo l’idea. Sarebbe un suicidio tranquillo e decente; più silenzioso dell’annegamento che riempie d’acqua la bocca”.

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