All'Opera di Roma insieme a “Pagliacci”
Sentirsi saltimbanchi e scrivere la “cavalleria rusticana”
Fine Ottocento, il giovane Pietro Mascagni, compositore di belle speranze, è costretto a una vita raminga, finché si ferma nella piccola Cerignola. E’ qui che dà voce e musica a Santuzza e Turiddu. E diventa una celebrità
Immaginatevi la scena. Un ventiquattrenne livornese, musicista di belle speranze, alto, biondo, aitante, occhi chiari, capelli folti e dritti sulla fronte, il verbo sciolto di chi ama l’allegria, scritturato da una compagnia di infimo ordine con paga miserrima, dopo aver girato in lungo e in largo per l’Italia si ritrova completamente spiantato, pieno di debiti, con fidanzata al seguito e per di più incinta, in quel di Cerignola, centro agricolo del Tavoliere delle Puglie. Siamo alla fine dell’Ottocento. L’Italia è unita da nemmeno trent’anni. La crisi agraria con la peronospora delle vigne sta per scoppiare, ma lui non lo sa. Esasperato dalla vita raminga, da una pessima stagione e bruttissimi affari, viene alle mani coll’impresario Luigi Maresca, un comico della scuola di Edoardo Scarpetta, che gli deve pure dei soldi, e decide di abbandonare la compagnia diretta in Sicilia, per stabilirsi proprio lì, a Cerignola, in quell’antico paese normanno nella valle dell’Ofanto, già feudo dei Pignatelli e famoso per essere stato teatro, nel 1503, di una delle vittorie con cui il capitano di Ferdinando il Cattolico Consalvo da Cordova sgominò i francesi, suggellando l’egemonia spagnola nel Sud Italia.
Il suo genio ribelle, disperato e volitivo, bramava gloria, fama, onore e ricchezze come ricompensa di una vita spesa per l’arte
Non stiamo entrando nella trama di un romanzo di appendice, ma in un capitolo chiave della biografia di Pietro Mascagni, destinato di lì poco a essere acclamato come uno dei migliori compositori d’Italia, e proprio grazie agli anni vissuti a Cerignola. Fu lì infatti che Mascagni scrisse la Cavalleria rusticana, il suo primo, e per alcuni unico, capolavoro. Fu lì che con l’aiuto del sindaco, il commendatore Giuseppe Cannone, e la simpatia dei notabili locali, riuscì a dare sfogo al suo genio ribelle, disperato e volitivo, che bramava gloria, fama, onore e ricchezze come ricompensa di una vita spesa per l’arte.
E’ un capitolo straordinario per capire il contesto di ristrettezze in cui nacque l’opera prima di Mascagni, in scena da giovedì al Teatro Costanzi di Roma (dove debuttò nel maggio del 1890) e in abbinamento con i Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, sotto la direzione di Carlo Rizzi e con la regia di Pippo Delbono (repliche l’8, il 10, 12 e 15 aprile, con Anita Rachvelishvili, Martina Belli, Alfred Kim, Gevorg Hakobyan / Kiril Manolov per la Cavalleria; Fabio Sartori / Diego Cavazzin, Carmela Remigio e gli stessi baritoni per i Pagliacci). E la storia è tanto più interessante dal momento che a raccontarla è lo stesso Mascagni nel suo Epistolario, a cura di Alberto Paloscia, Mario Morini e Roberto Iovino, pubblicato in due volumi dalla gloriosa Libreria Musicale italiana, che esortiamo a ristampare il primo, ormai esaurito.
Mascagni scrive a getto continuo, con la stessa felicità con cui compone. Per essere un uomo che aveva un unico ideale – “la musica deve essere l’espressione della parola” dichiara al suo librettista – è uno scrittore perfettamente musicale, dall’italiano fluviale, colorato, carnale, pieno di sentimenti, che corre senza intralci, entrando nei dettagli più intimi e minuti dell’esistenza, per penetrare in tutte le pieghe dell’animo umano. Se non sapessimo che a scrivere era un giovanotto di 24 anni, tormentato dall’ansia e alle prese con un destino inclemente, potremmo scambiarlo per un mistificatore geniale, un abile calcolatore, un opportunista pronto a tutto – effetti retorici, messinscena drammatica, finale strappalacrime – pur di raggiungere i suoi scopi. E invece no. Chi scrive è un giovane disperato, privo di risorse, ma animato da feroce ambizione. E’ un marginale che da anni vaga con una compagnia di saltimbanchi per i teatrini di mezza Italia, ma che di punto in bianco si è messo in testa di cambiare vita, e si è autoimposto una folle disciplina fondata sul lavoro, la famiglia, i figli che verranno, accettando l’angustia della provincia, solo per prepararsi al grande salto. E’ un artista in cerca di ispirazione e però capace di attingere a una sua verità interiore, per far vibrare tutte le corde del cuore.
Nelle lettere, un italiano fluviale, carnale, pieno di sentimenti, che corre senza intralci per penetrare in tutte le pieghe dell’anima
Ma chi era in realtà il futuro genio del melodramma verista? Il direttore d’orchestra della compagnia di Maresca era il secondogenito di un fornaio livornese. Orfano di madre a dieci anni, aveva frequentato buone scuole, ginnasio dai padri Barnabiti, coltivando la passione per la musica (osteggiatissima dal padre che lo voleva avvocato) con corsi di solfeggio e di pianoforte e cantando da contralto nella Schola Cantorum di San Benedetto. L’incontro con Alfredo Soffredini, fondatore dell’Istituto Cherubini e futuro redattore della Gazzetta Musicale di Giulio Ricordi, cambia la sua vita. E il sostegno del conte Florestano de Larderel gli permette di partire per Milano e frequentare il Conservatorio, dove Giacomo Puccini, suo compagno, lo prende a benvolere, e Amilcare Ponchielli chiama Maestro quell’allievo prodigio che ha già composto romanze, cantate e una sinfonia. Genio e sregolatezza, il livornese però a Milano soffoca, non resiste alla regole. Dopo un alterco col direttore, lascia il Conservatorio senza nemmeno diplomarsi, e si fa scritturare da una serie di compagnie di giro per suonare in tutta Italia. Inizia così per lui quella “schifosa vita nomade di saltimbanchi” che descriverà da Cerignola in una delle prime lettere al suo amico Vichi, Vittorio Gianfranceschi, conosciuto da studente al Politecnico di Milano.
Le lezioni alle figlie del sindaco, le cambiali in banca. “Sono tanto disgraziato che dubito di tutto. Ho bisogno di danaro e non di gloria”
La scelta di abbandonare la vita rapsodica dunque nasce dalla necessità. Le cose vanno di male in peggio, ma a Cerignola il sindaco e i notabili gli fanno balenare la possibilità di dare lezioni di pianoforte e diventare il responsabile dell’erigenda Filarmonica comunale, con stipendio fisso di 1.500 lire l’anno. Così, il nostro si sistema in casa di un Sebastiano Mazza, Corso Vittorio Emanuele 33, e si mette al lavoro. Le prime lezioni sono per le due figlie del sindaco Domenico Consonni, un mese dopo le lezioni sono già otto. Pazienza se i debiti aumentano, se per mettere su casa nella famosa via Assunta deve firmare cambiali in banca, pensando di persona a lenzuola e terraglie, e persino al tipo di vegetale da infilare nei materassi. Per uno come lui che crede fermamente nel destino e crede inutile combatterlo, la vita corre anche nelle avversità. Ogni sera al circolo di società, frequentato dall’aristocrazia, si fa musica. Mascagni suona le sue romanze, delizia i cerignolani col Valzer per quartetto di sua composizione e sogna di andare a Roma a sentire l’Otello di Verdi, ma gli mancano i soldi. Intanto continua a lavorare al suo Guglielmo Ratcliff, iniziato anni prima e ispirato al dramma di Heinrich Heine. E la vita privata dà le sue gioie: tre mesi dopo la nomina alla Filarmonica, diventa padre. La madre è una parmigiana di buona famiglia che l’ha seguito senza nemmeno farsi impalmare. Argenide Marcellina Carbognani, detta Lina, avrà un ruolo determinante. “Essa mi ha regolata la vita coi consigli e colle cure e senza di lei io sarei perduto”. E’ lei “la mano anonima” che l’ha consolato dopo l’abbandono di Beppina Acconci, “amata alla follia” ma fautrice di pietosa umiliazione. E’ lei che l’ha convinto a restare a Cerignola. E’ lei il vero motore del suo riscatto. “Giurai di tenerla sempre con me, di farla mia, di lavorare per formare la sua felicità, e non puoi credere quale sia il mio desiderio, la mia pazza volontà di farmi uno stato, una posizione, un nome!”, confida Mascagni a Vichi Gianfranceschi, raccontandogli le avventure della nascita del figlioletto, la presentazione ai notabili con la carrozza del sindaco, il battesimo in chiesa col sotterfugio dell’amico impiegato comunale, che riesce a non far risultare che i genitori non sono legittimi sposi. “Cerignola è un paese antico, bigotto, superstizioso, e Dio ne guardi se si sapesse che la donna che sta con me non è mia moglie! Sarei maledetto dai preti e non avrei più bene. M’immagino che tu riderai. Cosa vuoi, questa via mia, qua in questo paese barbaro, mi è di un sacrifizio immenso. Qui non si vive, si vegeta. Ma io sopporto tutto, aspettando con calma, ma pur con indicibile ansietà il giorno della mia liberazione”.
Turiddu e Santuzza in una illustrazione dei primi del Novecento. A dirigere “Cavalleria rusticana” e “Pagliacci” all’Opera di Roma è Carlo Rizzi, la regia è di Pippo Delbono
L’attesa della liberazione sarà breve. Segregato dal suo mondo musicale, senza nemmeno un pianoforte su cui provare, accontentandosi di strimpellare alla meglio le sue romanze al violino, di cantare da solo il suo Guglielmo al figlioletto, sentendosi come un cavallo bendato che si muove a frustrate lavorando tutto il giorno per una manciata di paglia, immerso sempre e solo nella sua musica, senza un confronto coi suoi pari, nell’estate del 1887 Mascagni viene a sapere del concorso per un’opera al Comunale di Bologna. Ma prima di partecipare al famoso concorso indetto dall’editore Sonzogno, che l’avrebbe reso famoso con la Cavalleria rusticana, passeranno altri due anni, durante i quali il destino sembra accanirsi contro di lui. La moglie si ammala di tifo. Mimì, il bambino nato pochi mesi dopo l’arrivo a Cerignola, la gioia della sua vita, “l’angioletto che si sbaciucchiava teneramente”, cantandogli le romanze, muore d’improvviso a soli quattro mesi e dieci giorni. La madre è impazzita. Il padre è distrutto. “Mi trovo avvilito, accasciato, impotente a lottare più oltre col destino mio che poco a poco mi annienta e mi distrugge. Quante cure, quanto affetto, quante nottate perdute, quanti sacrifizi. E quale ricompensa? Ma qual è dunque il mio destino su questa terra…”. In cattivissime acque, Mascagni pensa di scrivere a Larderel per stampare a sue spese qualche romanza. “Sono tanto disgraziato che dubito di tutto, Ho bisogno di danaro e non di gloria”. Intanto i 40 allievi della Filarmonica istruiti da lui solo, dopo appena 72 giorni da quando hanno preso per la prima volta in mano gli strumenti, provano in chiesa tutti insieme, eseguendo tre pezzi del maestro, e una romanza dal Freischütz di Weber. Miracolo.
Marcellina Carbognani la compagna, il vero motore del suo riscatto. Il giudizio lusinghiero di Puccini, che lo vorrebbe a Milano
Per gli auguri del nuovo anno, Mascagni scrive alla zia Maria di San Miniato: “Con tutto il mio studio, con tutte le mie composizioni, devo vivere, anzi vegetare, in questo remoto cantuccio dell’Italia. Un paese barbaro, senza risorse, senza progresso, unica consolazione essere stimato da tutti, ma altre sono le mie aspirazioni”. Il 15 gennaio parte per Napoli: al San Carlo danno Le Villi di Puccini e ne approfitta per far sentire le sue musiche all’amico. “Il Maestro Puccini ha pianto di vedermi così sacrificato in un paese come Cerignola”, confida Mascagni alla zia: “Se tu fossi a Milano, mi ha detto, tu faresti fortuna più di me, più di tutti, poiché là sei conosciuto e tutti ti vogliono bene. – E mi voleva portare via con sé. Questo Puccini in due anni si è fatto una bella fortuna; guadagna dalle 15 alle 20 mila lire all’anno. Ed io sono costretto a starmene quaggiù solo, segregato dal mondo”. E’ Puccini a insufflargli l’idea di farsi un nome con un’opera diversa dal Ratcliff. L’occasione arriva col bando dell’editore Sonzogno per un’opera in un atto unico, da presentare entro il maggio 1889: in palio la messa in scena delle tre opere migliori, la prima classificata riceverà in premio 3.000 lire, la seconda 2.000, la terza la sola esecuzione. A fine ottobre, Mascagni scrive all’amico poeta Nanni Targioni Tozzetti, professore di Lettere all’Accademia navale di Livorno. La sua idea è di mettere in musica, col titolo di Serafina, il racconto del cosentino Nicola Misasi, Marito e sacerdote. Oggi, purtroppo, possiamo solo immaginare cosa sarebbe stato quel melodramma su un “soggetto di un’efficacia superiore”, a detta di Mascagni, come le tristi nozze tra un pope albanese, fresco di seminario, e la più bella ragazza del paese, che però non è pura come la religione ortodossa prescrive, e viene persino assediata nel talamo dall’ex innamorato, creduto morto, che riappare d’improvviso proponendole di fuggire con lui. Troppo impegnativo, forse, mettere in versi il racconto del calabrese. Il librettista cambia idea quando vede, all’Arena Labronica, la Cavalleria rusticana di Giovanni Verga. Mascagni, che l’aveva già vista al Manzoni di Milano, gli dà carta bianca. Basterà prosciugare il testo teatrale di Verga, sfoltirne le scene, ridurre i personaggi e concentrarsi sul dramma della gelosia.
L’occasione arriva col bando del concorso dell’editore Sonzogno per un’opera in un atto unico, da presentare entro il maggio 1889
Del resto, Mascagni era un tipo di buon carattere. Nel carteggio con i librettisti (per fare in fretta, Targioni recluta anche il livornese Guido Menasci) si mostra duttile, fiducioso, entusiasta. “Il principio del libretto è ottimo, si vede che mi hai compreso, mi piace fino al delirio”, scrive il 5 gennaio. E due settimane dopo: “Impossibile fare meglio. Romanza sop. indovinatissima, finale grande efficacia. Sortita carrettiere forte, originale. Già musicata. Recit. versi sciolti, mia somma soddisfazione. Preludio e 1° coro già completi. Lavorerò uso treno lampo”. Ormai niente più sembra frenarlo, non quel “paese oscuro e infelice”, quella “città di cretini… dove la persona più intelligente è Titania”, la sua cagnolina. Non la crisi della peronospora, non la rivolta contadina con l’assalto al municipio, e nemmeno la perdita delle lezioni private e l’annunciata chiusura della Filarmonica che rischiano di gettarlo sul lastrico. Nemmeno la mancanza di un pianoforte: grazie al prestito del sindaco Cannone e della zia di San Miniato che gli manda un vaglia di 150 lire, ne prende in affitto a Bari uno verticale della Fabbrica Colombo. Il tempo stringe. “Io sono in orgasmo” scrive Mascagni all’amico Targioni Tozzetti, chiedendogli di concludere. A metà marzo il lavoro ha preso forma. Mascagni è contento. Non vuole toccare nulla. Ma c’è una frase, innestata sul preludio sinfonico, alla quale tiene molto, non la vuole sacrificare e dunque: “Arrossendo e con un filo di voce (…) sottopongo alla vostra avvedutezza un piccolo cambiamento, non già di situazione, ma semplicemente di versi”, e delicatamente chiede ai librettisti di sostituire la quartina che segue l’esclamazione di Santuzza La mala Pasqua a te! “Bramerei che i versi fossero quinari oppure decasillabi, senza tronchi o sdruccioli, per adattarli a quella famosa frase che è il mio incubo e che voi maledirete sinceramente; come pure vorrei almeno 4 versi per Santuzza e 4 per Torello. Perdonatemi! Questo fatto mi fa venire a mente l’epoca in cui Bellini scriveva a Felice Romani: mandami tanti versi, così e così, perché la musica è già pronta. E che questo memento sia di buon augurio, non già per voi ma per me”. Il memento colpirà nel segno.
In pochi mesi la nuova opera farà di Mascagni un uomo abbiente, e in cinquant’anni conterà migliaia di rappresentazioni nel mondo
Dopo la corsa finale, con lunghe notti insonne chiuso in una stanza a comporre, il 27 maggio 1889 il pacco della Cavalleria viene spedito a Milano per raccomandata, pare dalla moglie che va alla posta sotto una pioggia torrenziale. “Pesava k. 2,800. Speriamo che ci frutti k. 2,800 di biglietti da mille”, annuncia Mascagni alla zia Maria. Previsione al ribasso per un’opera che in pochi mesi farà di lui un uomo abbiente, e in cinquant’anni conterà migliaia di rappresentazioni in tutto il mondo. Ma per scegliere tra le 73 opere presentate, l’esito del concorso slitta di sei mesi, provocando in Mascagni nuove angosce, insonnie, deliri. Finalmente, il 23 febbraio 1890, invitato a far sentire al piano la Cavalleria alla Regia Accademia di Santa Cecilia, Mascagni parte per Roma, dove alloggia all’Albergo del Sole in piazza del Pantheon. Giudicata da una commissione in cui siedono fra gli altri Giovanni Sgambati, fondatore del liceo musicale di Santa Cecilia, e Amintore Galli, garibaldino, scapigliato e curatore della partitura italiana della Carmen di Bizet, la Cavalleria di Mascagni e il suo libretto vincono il primo premio. Il 17 maggio 1890 l’opera debutta al Costanzi, col grande tenore Roberto Stagno e il soprano Gemma Bellincioni, sotto la direzione di Leopoldo Mugnone. E alla fine, quando il compositore ventisettenne con l’aria di ragazzino appare sul palcoscenico, per lui c’è un’ovazione.