“Paura della libertà”, la profezia di Carlo Levi
La riflessione del giovane intellettuale davanti all’abisso che stava per inghiottire l’Europa
Milano. “Partivano i soldati francesi, con le modeste divise, coi pantaloni di fustagno e i visi annoiati dei pacifisti votati alla sconfitta; arrivavano gli inglesi, un esercito seicentesco, da una rinata merry England, ubriachi e spavaldi inaspettati guerrieri, terrore delle donne cattoliche di Bretagna, allegramente sicuri di una lontanissima vittoria”. Sette anni dopo, nel 1946, Carlo Levi ricordava così, a pennellate, del resto la pittura era la sua prima passione, i giorni del 1939 sulle coste dell’Atlantico dove era esule. Sembra di vedere le immagini iniziali di “Dunkirk”, ma l’urgenza che muoveva la scrittura del futuro autore di “Cristo si è fermato a Eboli”, allora trentasettenne, era più profonda.
Ripubblicato ora con merito da Neri Pozza, “Paura della libertà” è il libro che Levi iniziò a scrivere, per poi interromperlo per cause di forza maggiore, tra il 1939 e il 1940. E’ una riflessione storico-filosofica, o antropologica, sul destino della civiltà dell’occidente. La percezione di un giovane intellettuale europeo, che già aveva conosciuto l’impegno contro il fascismo nelle fila di quello che sarà poi l’azionismo, sollecitata e resa incandescente da una visione abissale: la catastrofe che si stava spalancando davanti all’Europa. Un disastro totale e collettivo, che aveva ragioni oscure eppure, ai suoi occhi, evidenti ben oltre i fatti della guerra imminente: “Fu allora che la crisi che aduggiava la vita d’Europa da decenni, e che si era manifestata in tutte le scissioni, i problemi, le difficoltà, le crudeltà, gli eroismi e la noia del nostro tempo, scoppiò verso la sua soluzione in catastrofe”. Una civiltà stava per crollare sotto le proprie macerie, per l’incapacità di difendere la propria stessa libertà, la propria natura. “La paura della libertà è il sentimento che ha generato il fascismo. Per chi ha l’animo di un servo, la sola pace, la sola felicità è nell’avere un padrone e nulla è più faticoso e veramente spaventoso dell’esercizio della libertà”, scriverà Levi nel 1944, in una delle sue frasi più celebri. Così, annotava riprendendo in mano dopo la guerra il suo libro interrotto, quel 14 giugno 1940 in cui “la bandiera tedesca fu alzata sulla Torre Eiffel… potrebbe restare come data simbolica della fine di un mondo di civiltà, di arte, di cultura, che non ritornerà anche se ora non sembra ancora sostituito da nulla che abbia una fisionomia precisa”.
Un libro che gli eventi hanno reso profetico, ma non per cronaca. Un saggio complesso, non facilmente collocabile oggi senza l’ottima introduzione di Giorgio Agamben. Eppure straordinariamente attuale, nel suo delineare le debolezze interne della nostra civiltà. E proprio il fatto che sia stato a lungo dimenticato, in un’Europa (e in un’Italia) prima ideologizzata e poi destituita di ragioni e passioni dimostra il perché sia attuale. Pubblicato nel 1946, accolto malissimo dalla cultura militante di allora, ripubblicato solo una volta nel 1964 nonostante Levi lo rivendicasse come il suo libro più “importante”, l’opera subì “il silenzio e la stolida ostilità”, scrive Agamben, soprattutto da parte della critica di impostazione marxista. La quale di “Paura della libertà” coglieva soltanto una imprecisata “visione mistica e decadente”, o anche peggio libertaria, della società. Insomma la sua visione della storia e dello stato (lo “Stato-idolo”) non si piegava, nemmeno un po’, alla visione soltanto materialista che dominava allora il dibattito filosofico. Era incomprensibile, Carlo Levi, a partire dai riferimenti culturali che si era scelti, alla radice della storia europea, e che fanno capolino nel libro: Dante, Boccaccio, Giotto, San Paolo, ma anche Cezanne, De Maistre, Milton.
Del progetto iniziale Levi scrisse solo i primi otto capitoli, e dopo la guerra non volle rimettere mano all’opera. Ma attraverso il loro disegno si leggono “le grandi linee d’una concezione del mondo, d’una reinterpretazione della storia”, come li definì Italo Calvino. Titoli e concetti netti, come “Sacrificio”, “Amor sacro e profano”, “Schiavitù”, “Le muse”. I fondamenti non marxisti, non materialisti, non economicisti né politicisti che vedeva essere l’origine e il pilastro – ma anche il disagio, per così dire – della civiltà di fronte alla grande crisi. Non crisi esterna, ma insita nell’animo stesso dell’uomo. Tutto parte della riflessione antropologia sull’opposizione di “sacro” e “religioso”, “non potremo intendere nulla di umano se non partiremo dal senso del sacro… non potremo intendere nulla di sociale se non partiremo dal senso del religioso, questo figlio poco rispettoso del sacro”. Ma la costruzione del religioso è al tempo stesso principio ordinatore della società e principio di tirannia. Da una parte i simboli, i miti, le leggi, e poi le arti, l’elaborazione codificata dei rapportarti tra gli umani che fondano la nostra civiltà. Dall’altra parte la rinuncia alla propria libertà individuale che porta a consegnarsi allo Stato-idolo. Nel mezzo, lo smarrimento dell’uomo contemporaneo che, alla fine del libro, Carlo Levi tratteggia ricorrendo proprio alla sua amata pittura, a Picasso: “Il terrore della libertà ci fa estranei al mondo, e lo popola di mostri. Se l’individuo creatore non ha limiti fissi, le ombres peureusescercano invece nei limiti la sola possibile difesa dalla sconfinata solitudine. E la pittura che nasce da questo mondo è un tentativo di salvezza, rassegnata o ribelle, se essa ci mostra les géographies solennelles des limites humaines”. E’ di questa “appassionata libertà” che gli uomini hanno innanzitutto paura, scrive Agamben nel suo saggio introduttivo, “cercando rifugio nell’informe comunità o nell’astratto individualismo, nell’idolatria o nell’ateismo, entrambi mortali”. Ma senza affrontare questa sfida, davanti agli uomini c’è solo la catastrofe. Allora come ora.