Le mille inquiete anime di Elizabeth Jane Howard

Giulia Ciarapica

Leggendo soprattutto la biografia di Artemis Cooper dedicata proprio alla “sua Jane” balza subito all’occhio la complessità della donna Elizabeth, oltre che della scrittrice Howard

"Jane, Jane… la grande, povera Jane. Lei sì che fu vittima della sua stessa immaginazione”, sussurra Artemis Cooper mentre siamo lì, io e lei, sedute in una stanza dalle pareti ocra a parlare della sua più cara amica, Elizabeth Jane Howard. Quante cose si sono dette sull’autrice dei Cazalet, quanta malizia c’è stata nel sottolineare i suoi numerosi rapporti sentimentali, e com’è frustrante immaginare che, anche solo per qualche attimo, il talento letterario sia stato oscurato da quei pettegolezzi sulla femme fatale. Perché questa è l’idea che molti hanno della Howard, di una mangia uomini a cui, tuttavia (e l’avverbio non è a caso), dobbiamo l’esistenza di opere notevoli. Eppure, leggendo soprattutto la biografia di Artemis Cooper dedicata proprio alla “sua Jane”, dal titolo “Un’innocenza pericolosa” (Fazi), balza subito all’occhio la complessità della donna Elizabeth, oltre che della scrittrice Howard.

 

Bambina, figlia, moglie e amante, autrice lungimirante e moderna, Jane è stata questo e ancora tanto altro: in lei sono convissute molte anime, tutte in bilico sull’orlo del precipizio. La sua personalità, conturbante e sfaccettata, affascinava non solo gli uomini, ma anche le donne; Artemis ne è la testimonianza, lei che era estasiata e al contempo intimorita da quell’amica incompresa e severa.I cinque romanzi che compongono la saga dei Cazalet sono fra i più noti della Howard; c’è da dire però che, all’inizio della sua carriera, qualche tempo dopo le prime esperienze come attrice e modella, Jane pubblicò un primo libro, “The Beautiful Visit” (1950), che le valse il John Llewellyn Rhys Memorial Prize. Anche se, a detta di un’altra grande scrittrice come Hilary Mantel (nonché estimatrice della Howard), uno dei testi più riusciti dell’autrice londinese, tanto dal punto di vista tecnico quanto da quello tematico, fu “The Long View” (1956).

 

Nel gennaio 2016, in un lungo articolo apparso sul Guardian, proprio Hilary Mantel aveva ricostruito il ritratto di Elizabeth Jane Howard, chiedendosi infine: “Gli splendidi e sottovalutati romanzi di Elizabeth Jane Howard sono stati sempre messi in ombra dalla sua turbolenta vita privata. Ma il vero motivo per cui sono sottovalutati è che sono considerati libri ‘sulle donne, scritti da una donna’?”. Dubbio legittimo, giacché perfino la Cooper ammise che quando uscirono i romanzi della Howard non ci fu di certo l’ovazione che spettava puntualmente agli scrittori di sesso maschile. Jane faticò sempre a guadagnarsi da vivere con la scrittura e raggiunse un più che meritato successo solo in un secondo momento; problema, questo, che non ebbe di certo il suo terzo e famoso marito, Kingsley Amis, scrittore, critico letterario e padre dell’ancora più celebre Martin Amis.

 

Ecco forse perché riscopriamo solo oggi romanzi come “All’ombra di Julius”, apparso per la prima volta nel 1965 e recentemente ripubblicato in Italia da Fazi. Proprio con “All’ombra di Julius” possiamo azzardare una fotografia dai contorni più nitidi della Howard femme fatale, intraprendente sì, ma anche profondamente inquieta. Soffermiamoci su Cressy, una delle protagoniste femminili nonché figlia del defunto Julius, nella quale rintracciamo le fattezze dell’autrice stessa, poiché i suoi tormenti non sono che lo specchio dei disagi della fragile Jane: entrambe sono alla ricerca di un posto nel mondo, da cui parte e si snoda un’altrettanta disperata ricerca ma questa volta d’amore – più che vana, giacché ogni flebile speranza d’affetto naufraga puntualmente in insignificanti rapporti sessuali – e che, tuttavia, ha radici lontane, ancestrali.

 

Dobbiamo risalire al periodo dell’infanzia, a quella madre così distante e insofferente che preferì sempre l’“amato figlio” Robin all’impacciata Jane. Cressy, esattamente come la Howard, si arrovella nell’esplorazione di sé, rimettendosi alle volontà di un ipotetico Uomo che la apprezzi, che la faccia essere e non apparire, che la ami e la renda felice. Che la faccia esistere per quello che è. Tutto nasce in seno a quell’ormai sbiadito nucleo familiare, là dove Jane è cresciuta privandosi dell’amore della madre Kit – ballerina frustrata che rinunciò alla carriera per il matrimonio – e combattendo contro il “troppo amore” – malato, violento – di suo padre David (ma non fu questo il trauma più grande). La verità è che ogni scelta sbagliata, ogni singolo moto di angoscia e inibizione, partono da quell’unica, grande mancanza nella vita della piccola Howard. Di quella Jane così innocente e così pericolosa.

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