Una cena a Montichiari (pure io) a scoprire che Aldo Busi parla proprio di noi
Le “consapevolezze ultime”, radiografia dell’ipocrisia collettiva
Il caso ha voluto che due settimane fa io mi ritrovassi invitato a cena da gente che non conoscevo nei pressi di Montichiari, in provincia di Brescia. Sono arrivato in perfetto orario, ho parcheggiato in salita, e già dal cancello dell’augusta villazza le avvisaglie antropologiche della Padania fatale c’erano tutte, a partire dal cancello impreziosito da un’effigie minatoria raffigurante un cane, una rivoltella e l’endecasillabo mancato d’un soffio “Attenti al cane ma anche al padrone”, fino al giardino che dal cancello si intravedeva, dotato di pozzo finto e sette nani-telecamera a pattugliarne il sognante peripato.
Ah! l’oceano padano che odio e amo contro me stesso, tutto affissioni cordiali e aria pregna di angolose effusioni mefitiche… e se non è purulenza industriale è diserbante, se non è diserbante è purulenza industriale, sennò è purulenza industriale con un fin di bocca di diserbante… Terra di industriali in calzoni color piperita nei feriali e color aragosta di domenica, terra di soffritti valorosi che cantano nelle padelle già alle 10.30 di mattina e di autostrade intasate o deserte e solcata da autotreni in processioni ovine intorno all’ennesima rotonda, terra velenosa e maderizzata, tanto produttiva tanto suicida. Ma Montichiari è anche, incredibilmente, capoluogo letterario, perché è là dove Aldo Busi mantiene residenza fiscale, alla faccia dei tanti scrittori alle prese coi propri domicili poetici – chi in montagna a esiliarsi, chi in campagna ad astrarsi, chi in periferia a trasumanarsi, chi nella saga del tra (“tra Milano e Niuiòrk”) a crogiolarsi. Ma tornando alla cena nell’augusta villazza, si protrasse ben oltre i tre istituzionali giri di grappe, uìschi e sambuche, corredata da tutte le sambe dell’ovvio e anche da me, che in casi come questi osservo, mi diverto e sopravvivo con quel che c’è. In quell’occasione però non partecipai molto, immerso com’ero nei miei pensieri circa una frase pronunciata a inizio convivio, dopo gli aperipasti e gli antiaperitivi, cazzuolata che mi fu la lasagna nel finissimo biancore di un inevitabile Villeroy & Boch.
L’argomento erano i libri. E ovviamente saltò fuori Aldo Busi. La padrona di casa, moglie di un imprenditore di qualcosa, alata di scialli e dotata d’ascella non proprio alle tre artemisie, cinguettò: “Io apprezzo Busi, sia chiaro, e poi qui gli vogliamo anche bene… Però non riesco a leggerlo.” Senza por tempo in mezzo intervenne una biondona che per tutta la sera aveva taciuto, e che, calandosi tra le fauci un grugnone di lasagna, le mugugnò appresso: “Ah, se ti può consolare, sono d’accordo. Sempre il solito io-io-io!” Il padrone di casa notò il mio disappunto facciale. “Lei non condivide?” domandò. “Mi corregga pure se sbaglio”, e sorrise, “ma secondo lei uno può occuparsi sempre e solo di se stesso?”. Si sbagliava: l’avrei dovuto correggere? Che si fa con la contrarietà, quando sorge repentina e in casa d’altri? La si cova? La si soffoca? La si incanala in un’attività creativa come la menano al Dams? Forse avrei dovuto elevare davanti ai loro occhi una maestosa scultura di mollica di pane e dire: questa è la mia amarezza… invece, da uomo mediocre e cortese quale sono, decisi di rispondere. “Perché non può essere lei a occuparsi di lui”, chiesi, “leggendolo da cima a fondo? Sono sicuro che verrà a sapere, su di sé, tante cose che nemmeno immagina”. E intanto mi dicevo: fermati, non fare l’ultras che non sei, che ti frega? Hai voglia a spiegargli che Busi non si è mai occupato solo di se stesso, per lo meno non nel senso in cui lo intendono loro, essendo sempre, Busi, un punto di vista letterario, dunque autobiografia di un altro, scrittore nudo (l’ha detto e titolato) di madre. “Bah”, squittì una tipa di fronte a me, tutta bigiotteria, musino e rossetto, “dica pure quel che vuole, ma anch’io continuo a preferire i miei gialli”. Sculture di mollica, a me!
A noi, invece, Le consapevolezze ultime (Einaudi), nuovo infuocato assolo di Aldo Busi e trentasettesima dimostrazione che lo scrittore non solo si occupa – e se ne occupa, non v’è dubbio – di sé, ma assiduamente di noi. Lo fa dalla prima parola che ha scritto fino a “tiè”, l’ultima al momento documentabile e che chiude questo libro, il quale proprio con una cena mondana comincia e (quasi) finisce, libro in cui Busi non scrive di sé partendo da sé, perché come ogni vero scrittore è una fabbrica sperimentale di identità, forgia perpetua di maschere narrative compresa la propria, quella di cui si serve anche in questo caso e che spesso induce il lettore emotivo all’indebita sovrapposizione.
L’avevamo lasciato, anno 2012, all’ardita traiettoria del suo dialogo-monologo con la foglia di Barcellona, seduto su una sedia di ferro a ruminare l’esistenza e le consapevolezze terzultime. Nel 2015 l’avevamo colto in vestaglia penultima, indeciso tra Davos e no, ma già in viaggio per locomozione linguistica. Nel 2018 lo ritroviamo grazie a questa inesorabile radiografia dell’ipocrisia collettiva, nello specifico quella d’una borghesia industriale provinciale che tutto arraffa e niente si domanda di ciò che genera e men che meno delle conseguenze della propria ignarità, ma fluttua in una dimensione irrelata e di impunità che le consente di scrollarsi di dosso qualunque responsabilità morale e civile. Ci dice questo, lo scrittore che qualcuno accusa di essere sempre spettatore di sé: che siamo protagonisti di una letale estraneità politica a noi stessi, cioè che il Paese non esiste. Con queste premesse non stupisce che Busi sia stato recepito spesso freddamente da un panorama letterario tutto campanili, lallazione & commissari, e non stupisce che la domanda sottesa sia sempre “come si permette Aldo Busi di essere sempre ostinatamente Aldo Busi”, ovvero siliceo, auto-consustanziale ed estraneo a tutto il resto? Errore imperdonabile.
Errore che è il massimo suo valore: Busi è casa di se stesso, di quanti scrittori italiani lo si può dire? Né vicario né beneficiario – “chi porta una borsa ne porterà mille,” scriveva in Sodomie in corpo 11 – mai corteggia la mediocrità, mai pettina il lettore, mai titilla le parti molli della morbosità ma sempre presiede la propria visione del mondo col controllo assoluto del mezzo, un mezzo tutto intero. E lo dimostra anche stavolta. Dopo una prima parte allegramente ripida di parentesi vertiginose, nella seconda la lingua s’appiana e dà corpo a un racconto che ci lascia tutto l’amaro della consapevolezza ultima che tout se tient, che “tutto convive”, da Montichiari a Managua passando per il quartiere del Carmine a Brescia fino al mare di Lampedusa, perché l’uomo, impunito da sempre, vuole solo una cosa: reggia per sé e lager per gli altri. Le consapevolezze ultime è un testo breve e ingente, una macchina anfibia implacabile che sa scandagliare e sorvolare, certo inevitabilmente complessa, ma ogni scrittore non è forse responsabile delle complessità che porta così come di quelle a cui rinuncia?
Aldo Busi – uno che per raccontarcela ha lasciato la vita alla nostra impossibilità di viverla non scissi – è sempre, per fortuna, se stesso: lo scrittore che purtroppo non abbiamo saputo far nulla per meritarci fino in fondo.