Dentro il vulcano
Una commedia dantesca ubriaca, una prosa lirica e furibonda. Che cosa è stato tradurre il grande romanzo di Malcolm Lowry
Che cosa si può dire di un libro come Sotto il vulcano, dopo averci passato le giornate come un verme (gusano) sul fondo di una bottiglia di mescal e averlo portato sull’altro lato della montagna, tradotto – sherpa di parole – in italiano? Ma prima di tutto: chi sa più davvero che cos’è questo romanzo? Non sono in molti oggi a nutrire la venerazione che avevamo noi da giovani, quando era un libro con cui dovevi confrontarti, anche – soprattutto – per uscirne sconfitto. Nonostante l’ammirazione di Roberto Bolaño (che lo mise in esergo ai Detective selvaggi), nonostante lo sparuto gruppo di scrittori che lo adora, nonostante i tanti omaggi a rinverdirne la fama, questo capolavoro modernista è un po’ uscito dal radar, più di libri maggiormente faticosi come l’Ulisse o la Recherche.
In breve racconta l’ultimo giorno di vita di Geoffrey Firmin, ex Console britannico dal passato oscuro, alcolista irrecuperabile, nella città immaginaria di Quauhnahuac, modellata su Cuernavaca, in compagnia della moglie Yvonne, appena tornata dopo averlo abbandonato, e del fratellastro Hugh, ex amante della moglie e rivoluzionario vanaglorioso (compare anche un regista francese di nome Laruelle e qualche altro comprimario). I tre chiacchierano, passeggiano, partono per una gita, incappano forse in un omicidio, litigano, fino al tragico epilogo per mano fascista. Non succede molto altro. E intanto si beve. Moltissimo.
Tutto qui, dunque? Calma.
Ricominciamo dall’inizio, anzi dalla fine, perché quando comincia, il romanzo è già terminato. E’ il 2 novembre del 1939, il Giorno dei Morti, e Hitler dall’altra parte del mondo ha invaso la Polonia. Zoomiamo lentamente verso due signori che bevono anice dopo aver giocato a tennis. Le processioni funebri sfilano alle loro spalle e davanti a loro la quiete della città è violata solo dagli echi della fiesta che muore. Parlottano dei fatti di un anno prima, che noi non conosciamo ancora. “Volevo aiutarlo a disintossicarsi”. “Ma lei era tornata! Questo non riesco a spiegarmelo…”. Che cosa è successo? Ripensano al Console, scomparso l’anno prima, un uomo tormentato, a tal punto etilista da non riuscire a infilarsi i calzini, finché uno dei due in un bar non incappa in una vecchia lettera d’amore – “Notte”, è la prima parola del Console nel libro: la notte eterna dell’anima, ovviamente – e decide di bruciarla. Cenere alla cenere. Ecco, il libro si chiude, brucia, eppure è appena cominciato. Ma che cosa si può dire allora di un libro che inizia dalla fine, con un’ouverture metafisica, un lento movimento sognante verso il passato, verso la morte, in bilico su un precipizio di parole? Niente si può dire, al massimo si può leggere, rileggere, tradurlo, sprofondarci. Perché da lì il libro torna indietro di un anno e comincia. In seguito alla separazione, la moglie del Console è tornata e lo trova al bancone di un bar dopo aver bevuto per tutta la notte. Si guardano. Lì comincia l’altro Giorno dei Morti, nel 1938, la vera vicenda del nostro libro. La storia si srotola lenta, improvvisa, contraddittoria, con echi di Melville e Conrad e Joyce: dialoghi, reminiscenze, gelosie, rinfacci, slanci, rimpianti, gite in corriera, riflessioni filosofiche, grotteschi approcci sessuali, rancori, soste nelle cantinas, bevute di mescal, danze, macchine infernali, fughe fatali. Tutto in un solo fatale giorno.
La storia si srotola lenta, improvvisa, contraddittoria, con echi di Melville e Conrad e Joyce. Tutto in un solo fatale giorno
Sotto il vulcano è stato prima di tutto una larga fetta della vita di Malcolm Lowry, che aveva pubblicato un romanzo minore anni prima e non sarebbe mai più riuscito a pubblicare qualcosa fino alla morte. Nato dai fantasmi di un matrimonio fallito con una donna di nome Jan Gabriel, da un episodio di cronaca orecchiato e da un piccolo racconto poi dilatato sempre più, fino a diventare un magma incontrollabile, un vulcano vero e proprio di ambizioni, tenuto insieme grazie alla seconda moglie, Margerie, cui è dedicato, con dieci anni di lavoro e di rifiuti, fino al sì da parte di un editore che portò a Lowry la fama e con essa un’infelicità ancora maggiore (“Meglio restare per sempre nel buio e fallire e andare a picco,” scrisse in una poesia). Quando arrivò a New York, accolto come una star, si presentò alla festa in suo onore completamente ubriaco e non riuscì a dire una parola per l’imbarazzo e la paura. Forse sentiva di avere messo tutto in quel libro, anche la vita futura: era diventato un fantasma e non sarebbe campato ancora a lungo. Al libro sarebbero state appiccicate innumerevoli etichette. Che altro è?
E’ una commedia dantesca ubriaca? Sì, certo. La voragine – barranca, Malebolge – che corre per il Messico e per il libro, è insieme perfetta metafora della dannazione e semplice becera discarica. C’è il destino del mondo e la nostra miserabile vita quotidiana. Poi pagine e pagine intrise di allucinazioni: delirio, visione, balbettio, vergogna, estasi. C’è tutto il campionario del perfetto ubriacone. E d’altra parte basta aver bevuto un po’ – un quarto, un sedicesimo, un trentaduesimo del Console – ma comunque avere sfiorato quell’abiezione, per conoscere il momento, tradotto da Lowry con tanta magnificente esattezza, in cui nel cuore di una sbornia tutto diventa nitido e chiaro e fermo. Adamantino. Dove la prosa, tanto stratificata, si apre e distende in una visione tersa e abbacinante di dolore ed estasi. (Mentre annaspavo parola per parola, goccia a goccia, mi sono segnato tutto quello che beve il Console nel corso del fatidico ultimo giorno di vita. Comincia alla mattina presto, dopo aver bevuto – ça va sans dire – tutta la notte. E poi via: due whisky, mezzo bicchiere di stricnina, una bella sorsata di whisky dalla bottiglia di un tizio inglese incontrato per la strada, ancora stricnina, whisky tracannato dalla bottiglia, un altro bicchiere di whisky, un altro dito di whisky, un po’ di stricnina, diversi sorsi di tequila a canna, diverse birre in veranda, una birra in bagno, una bella sorsata di acqua di colonia, due whisky mentre si fa la barba, tutti i drink (tre) preparati da Laruelle per gli ospiti più il fondo dello shaker a canna, una tequila e mezzo al bar, tre tequila nella cantina della Señora Gregorio, qualche sorso di rum sulla corriera, diversi sorsi di rum nell’arena, tre mescal al Salón Ofélia, birra a volontà al tavolo, un mescal, altri sette mescal, il fondo di una bottiglia di mescal nella camera di una prostituta, diversi bicchieri di mescal e tequila, fine. Ce n’è abbastanza per spegnere un vulcano.)
E’ una partitura jazz? Sì. La prosa di Lowry è sincopata, spezzata, ritmica, furibonda, poi all’improvviso lirica. È uno scrittore che sa suonare ogni strumento – l’elegia ridicola, il quadretto comico, la slapstick linguistica, il montaggio alternato – e che sa improvvisare, creando uno standard e poi tradendolo di continuo, per tornare indietro, ritrovare il filo, il motivo, e perderlo ancora. Una ruminazione continua. Digressioni, vaneggiamenti. Proprio come uno scrittore modernista, il Console si perde sempre dietro alle interpretazioni e ai simboli, ai riferimenti colti e alle battutacce oscene, in un tripudio di associazioni libere e descrizioni sensuali. E io – noi – immersi in quella pece. Uno stile che lui definiva “churrigueresque”, sfarzoso, rococò. Periodi così lunghi e intrecciati da lasciare un persistente mal di testa a fine giornata, vero hangover del traduttore.
E’ il Grande Romanzo Messicano, l’elegia di un paese dolente e devastato. Ma non solo: si apre anche di continuo all’Inghilterra (la visione dei Taskerson, i campi da golf, la nostalgia di Liverpool), all’America (la passeggiata di Yvonne per New York, il suo breve successo a Los Angeles), alla Spagna, alla Germania, all’Estremo Oriente, al mare intero con la rotta della nave di Hugh elencata fino all’estenuazione, isola per isola, smarrimento per smarrimento.
E’ un libro sull’amore, l’amore perduto, l’amore adultero, l’amore impotente, l’amore dolce e scomparso, amaro e odioso. L’amore che arriva troppo tardi. Yvonne è la donna che il Console non avrà più, perché l’avrà per sempre, nelle sue scaltre infedeltà e nelle sue illusioni ingenue.
È un libro politico. Non c’è solo alcol, ma anche il mondo in fiamme. Tutta la storia è una vicenda di disillusione, con il Console cinico (e romantico) e il fratellastro idealista (e fatuo), pronti entrambi a sacrificare la vita, il secondo per la causa antifascista in Spagna, fuori tempo massimo, e il primo per cosa? Per disperazione, dissoluzione, degradazione, ma in fondo anche per una forma di riscatto: le ultime parole che il Console sente sono l’ambigua “pelado” (è il conquistador, ma anche l’indio) e infine “compañero”. A bruciare nel vulcano – in un delirio finale – non è solo lui, ma l’umanità intera, presagio della guerra e perfino delle camere a gas.
Rintocchi, echi sinistri. Di tanto in tanto bevevo un goccio di mescal, per sentire quel brivido terribile di cui parla il Console
E allora come tradurre un oggetto incandescente che tanto a lungo ti è rimasto tra le mani, davanti agli occhi, nella testa? Passare ore e ore in una sbornia cosmica, una settimana intera sprofondato nelle lettere disperate che Firmin scrive a Yvonne: un giro di frase, poi un altro, poi un altro ancora – come un giro di bevute – e poi approdare ogni volta alla frase ghigliottina che chiude forse uno dei paragrafi più belli di ogni tempo. “Ed è così che a volte mi vedo, un grande esploratore che ha scoperto chissà quale terra straordinaria da cui non potrà mai fare ritorno per raccontarla al mondo e il nome di quella terra è inferno”. Ho sempre pensato che la traduzione fosse simile al restauro. Noi possiamo ammirare la Cappella Sistina, osservarla per un certo lasso di tempo, studiarne le riproduzioni su volumi esattissimi, ma come capire la pupilla del restauratore, ferma per ore e ore sulla mano di Michelangelo, a ribadirne i contorni, a riprenderne le sfumature, a rintracciare i tratti? Ecco, il traduttore è un lento lettore al cubo, un piccolo palombaro inabissato nelle parole e quindi nella mente di un autore, a ripercorrerne le tracce. E se tradurre un autore mediocre può apparire una faccenda svogliata come occuparsi di una pala d’altare minore, ecco che misurarsi con un grande scrittore, o un genio, significa percepire la grandezza come una continua rivelazione, un’epifania ribadita, una nota tenuta. Sotto il vulcano equivale a restaurare un enorme affresco che per miracolo tiene insieme Orozco e Soutine e Lorraine, scendere negli abissi caravaggeschi dell’allucinazione e dell’annichilimento, cogliere un riflesso di quel dolore.
Dieci anni di lavoro e di rifiuti, fino al sì da parte di un editore che portò a Lowry la fama e con essa un’infelicità ancora maggiore
Alberto Ongaro raccontava a D’Orrico che c’era qualcosa di magico, di fatale, in questo libro e forse aveva ragione, se nel corso del lavoro mi sono capitate alcune inquietanti coincidenze. Avevo appena finito di scrivere un romanzo con una corriera che viaggia verso un bellissimo e disturbante vulcano, quando Feltrinelli mi ha invitato a tradurre Lowry. I miei personaggi, dunque, avevano viaggiato – in un libro pieno di alcol e di amore perduto, tra l’altro – verso un vulcano che ora si materializzava davanti a me. E così sono tornato nel vulcano. Di notte, d’estate, guardavo Eisenstein, Que viva Mexico!, che l’aveva ispirato, oppure Las Manos de Orlac, il film che aleggia per tutto il libro, e che ho recuperato in rete (naturalmente solo in lingua spagnola). Un giorno la morosa mi ha comprato delle medicine perché non stavo bene e assurdamente una aveva scritto sopra “Nux Vomica”. Un inutile rimedio omeopatico, sì, ma soprattutto lo stesso intruglio alla stricnina che beve il Console per smettere di bere. Rintocchi, echi sinistri. Tanto che ogni amore perduto si materializzava davanti a me. “Yet they had loved one another!” Le lettere del Console si confondevano con le mie, così come i rimpianti e le paure. Aggiustare le frasi, levigare il dolore: la traduzione davvero perfetta. Di tanto in tanto bevevo un goccio di mescal, per sentire quel brivido terribile di cui parla il Console. Rileggevo la scena in cui lui affonda il viso contro la spalla di Yvonne: “Sono un professionista,” ripetevo, “un traduttore coi fiocchi, levigo, adatto, lucido la prosa.” Come no, poi crollavo e piangevo. “La Despedida, pensò lei. La Separazione! Una volta che l’umidità e i detriti avessero portato a termine l’opera, le due metà separate della roccia scissa si sarebbero sbriciolate.” Parlava di me e di una donna, di Firmin e di Yvonne, di me e di quest’opera mastodontica? “… e per un attimo fu come se lo spirito della grazia e della tenerezza aleggiasse su di loro, a custodirli, a proteggerli…”. L’avrei riprodotta questa grazia, questa tenerezza, nella mia traduzione, nella mia vita?
E’ una partitura jazz, è il Grande Romanzo Messicano, è un libro sull’amore. Non c’è solo alcol, ma anche il mondo in fiamme
Ma il crollo arrivò.
Sotto il vulcano era stato un gorgo, un maelstrom al rovescio, che aveva inghiottito tutto, i sogni e le ambizioni, incarnandosi nel proprio autore per tutti gli anni a venire, restando lì come un capolavoro ineguagliabile, una montagna inattingibile, un cono di luce intorno al quale vagano lettori intimoriti e spauriti traduttori: io, a tarda notte, in una casa vuota nel caldo dell’estate. “Era solo. Dov’erano tutti? Forse non c’era mai stato nessuno”. Ti diranno che la traduzione è bella, brutta, puntuale, svogliata, ordinata, sovrumana. Ma che importa? Oggi non posso dire solo di averlo letto, l’ho attraversato parola per parola più volte, avanti e indietro: io ho camminato sul filo sopra la barranca. “Ma se adesso guardi la luce del sole lì, ah, allora forse troverai la risposta, vedi, guarda il modo in cui cade dalla finestra: esiste qualcosa di più bello di una cantina alla mattina presto? Con tutto il rispetto, no.” Già, esiste qualcosa di più bello che (ri)scrivere questa frase? No se puede vivir sin amar Malcolm Lowry.