Un rivoluzionario borghesuccio e ossessionato dal controllo, perfetto per i social
Il “buonuomo Lenin” di Malaparte, sorprese molto attuali
L’incrociatore Aurora ha sparato, sul Palazzo d’Inverno sventola la bandiera rossa e nell’aula dell’Istituto per le fanciulle nobili Smolny un uomo piccolo e agitato dice Es schwindelt, mi gira la testa, mentre si toglie la parrucca rivelando la calvizie, e rivelando anche la sua identità. A Pietrogrado è la sera del 25 ottobre 1917, nel resto del mondo è già il 7 novembre, e l’orologio della storia ha appena segnato l’ora zero di una nuova èra. A far spostare le lancette è stato proprio quest’uomo, dalla parlata rapida e dal riso stridente. Ha 47 anni, non ha mai lavorato, non ha mai avuto una vera casa, non è mai andato in guerra, ha solo scritto: saggi, ordini, trattati, lettere, articoli, programmi, recensioni, polemiche e pizzini. Ha progettato una rivoluzione senza mai fare del male a nessuno, anzi, senza fare nulla. Ha vissuto in camere in affitto, è andato in bicicletta, ha giocato a carte con la suocera e preso il tè con la moglie e gli amici: il mondo reale gli è sconosciuto, come il paese che si appresta a ribaltare da cima a fondo, non ha la più pallida idea di come si governa, si amministra, si produce, e anche la sua rivoluzione è stata in gran parte fatta da altri. Ma sarà lui a iscrivere il suo nome, anzi il suo pseudonimo, nella storia, cinque lettere che tuttora restano incise in marmo sul suo mausoleo in piazza Rossa: Lenin.
Più di 100 anni dopo quello che i manuali di storia russi oggi chiamano “colpo di stato bolscevico” potrebbe essere curioso rileggere con uno sguardo nuovo l’inizio di una rivoluzione, in sordina, a sorpresa, animata da personaggi improbabili, tra l’indifferenza e il disprezzo di chi in quel momento era impegnato a muovere le leve della storia altrove. “Il buonuomo Lenin” di Curzio Malaparte, appena uscito da Adelphi, può essere un curioso manuale sulle rivoluzioni fatte da una banda di scalmanati. Basato sui reportage scritti dall’Unione Sovietica dall’allora direttore della Stampa, lo scritto di Malaparte – uscito in francese nel 1932 come “Le bonhomme Lénine”, in italiano con il titolo “Lenin buonanima” nel 1962, e ripubblicato ora, nella meticolosa ricostruzione del testo a opera di Maria Rosa Bricchi – è una sorta di biografia romanzata, scritta per di più in un’epoca in cui tante testimonianze e documenti non erano ancora stati svelati, e alcuni dei peggiori crimini del comunismo non erano ancora stati commessi. Malaparte utilizza il suo personaggio per lanciare una polemica tutta contemporanea, in un’epoca in cui non c’era ancora l’abitudine ai capi e duci carismatici – a dire il vero, oltre a Lenin, ce n’era in circolazione soltanto un altro, e infatti lo scrittore si mise a lavorare sul capo bolscevico in una pausa dei preparativi per la biografia di Mussolini – e ricama sopra la trama biografica un ricco ritratto letterario. Non è certo da consigliare come ricerca storica: il Lenin di Mapalaparte si gratta il naso, suda, sbuffa, compie tutta una serie di gesti che nemmeno il più attento e plausibile dei testimoni avrebbe potuto riferire allo scrittore, insomma, è attendibile quanto un’intervista del Papa a Scalfari. Ma il mestiere al direttore della Stampa non manca, quello che non necessariamente è vero è ben trovato, e l’analisi di un leader antisistema scritta da un appassionato seguace di un altro movimento antisistema diventa, 100 anni dopo, una lettura curiosamente attuale. Molte intuizioni di Malaparte sul personaggio di Lenin verranno confermate da testimonianze e documenti emersi negli anni successivi, soprattutto quella del titolo: Vladimir Ilic Ulianov non era un eroe, una forza della natura, un Genghis Khan sanguinario emerso dalle steppe orientali. Era un “ragionere della violenza, un organizzatore del disordine”, un burocrate della rivoluzione. Se la sua vita fosse andata altrimenti, sarebbe diventato un funzionario delle scuole, come suo padre.
Un avvocato banale come la sua bicicletta
Un avvocato fallito di Simbirsk, ossessionato dall’organizzazione, un ossessivo compulsivo, si direbbe in linguaggio moderno. Mentre i compagni di partito costruivano barricate, marcivano nelle galere dello zar e organizzavano attentati dinamitardi, lui riempiva pagine interminabili di regolamenti e dottrine, incasellando su carta le regole della rivoluzione, e combattendo con l’inchiostro tutte le deviazioni dall’unico pensiero giusto, il suo. La sua rivoluzione si compie nei congressi di partito, nei giornali, nelle liti per corrispondenza tra gruppettari marxisti sparsi tra Zurigo, Londra, Parigi e Pietroburgo (oggi si sarebbe trovato a suo agio sui social), in un mondo quasi virtuale di personaggi che con la realtà hanno un rapporto nel migliore dei casi faticoso. Nulla dell’eroe romantico, del ribelle e del tribuno: il Lenin di Malaparte non è il Limonov di Carrère, è più un Casaleggio (con un pizzico di Di Maio). E’ il piccolo borghese per eccellenza, secondo Malaparte, anonimo, timido, privo di voli dello spirito e del sentimento, fanatico e spietato perché astratto: “La parola ‘distruggere’, non ha, per lui, se non un significato che si potrebbe chiamare amministrativo, burocratico. Egli non si arresta sulle parole che pronuncia, o che scrive. Egli non ha, per questo, abbastanza immaginazione”. E’ l’uomo nell’astuccio di Cechov, non un demiurgo: preciso come un orologio, banale come la sua bicicletta. Chi gli ha dipinto intorno una aureola di divinità selvaggia uscita dalle tenebre orientali, non deve dormire tranquillo: non è possibile rimuoverlo con sollievo oltre i confini del mondo occidentale, convinti che nel nostro mondo ordinato e libero un Lenin non potrebbe mai accadere, è un animale del buon salotto borghese europeo, è il nostro vicino di scrivania, il “buon uomo” che ci saluta quando ci incontra dal panettiere.
Ritratto dissacrante, non proprio storico
Un ritratto dissacrante che ha tratti comuni anche con un successore di Lenin, un altro piccolo borghese di Pietroburgo, anche lui di nome Vladimir, che gli osservatori occidentali raffigurano come diabolico stratega e spietato zar dai tratti orientali, senza riconoscere in lui quello che fu, prima di salire al potere, come Lenin, a 47 anni: un piccolo burocrate ansioso di entrare nel bel salotto dei potenti europei. Malaparte non nasconde di preferire di gran lunga Trozky, carismatico, coraggioso, ironico e violento, e dipinge un Lenin timido, irrisoluto, che trascorre nascosto e mascherato i giorni precedenti alla rivoluzione, lasciando agire gli altri. Da bravo fascista, Malaparte sogna gli eroi, “borghese” per lui ha un’accezione negativa. Il borghese è l’antiaristocratico, il plebeo morale, e Malaparte non ne coglie il tratto fondante, quello che ha trasformato in “borghese” la democrazia: la moderazione, l’avversità all’estremismo, l’odio per tutto quello che può sovvertire la sua vita benestante. Lenin è il contrario del borghese, è un uomo che del borghese ha l’eloquio, l’educazione, i vestiti e i rapporti familiari, ma nella società borghese non riesce a inserirsi, al punto da ritenere che l’unico rimedio a questo disagio sia la distruzione fisica della borghesia. Molti suoi compagni rivoluzionari – Trozky, Stalin, Kamenev – rappresentavano ceti emergenti, che per famiglia o appartenenza etnica non riuscivano ad ottenere nella Russia zarista quello cui avrebbero potuto aspirare. Lenin no, era uno studente modello, un nobile, figlio di una famiglia benestante di servitori dello stato. Eppure, con un fanatismo degno più del militante di una setta religiosa, rivolge tutta la sua determinazione a dimostrare che in Russia – contrariamente all’evidenza marxista – dovrà accadere una rivoluzione proletaria, e che per compierla non serve una evoluzione economica e sociale, basta un partito organizzato nel modo giusto. Per i vent’anni successivi si dedicherà a crearlo, facendo fuori i padri fondatori, prendendo il controllo degli indirizzari e delle reti di collaboratori, espellendo senza pietà gli incerti, creando intorno a sé uno zoccolo duro di impresentabili spesso oltre il limite dell’imbarazzante, ma che avevano un’unica virtù: obbedire senza discutere.
“Il primo problema di una rivoluzione è il potere”. Cosa fare di questo esercito di automi una volta raggiunto il potere – più per merito o demerito altrui, perché il sistema era crollato, perché prima erano arrivati altri rottamatori, più intelligenti e accorti, ma meno determinati – Lenin non ci aveva mai pensato, e le vertigini che lo assalirono la sera del 25 ottobre 1917 erano più che giustificate. Lo sciopero dei funzionari del governo è il primo ostacolo che incontra, con la scoperta che lo stato è una macchina complessa ma necessaria e funzionale. Il Lenin fanatico cede il posto al Lenin pragmatico, che prima prende decisioni necessarie, e poi versa fiumi d’inchiostro a giustificare e fornire una base teorica alla giravolta a 180 gradi che ha appena messo in atto. Dal piegare la realtà si passa al farsene piegare, e dal sostenere che l’intellighenzia “non è il cervello della nazione, ma la sua merda” al dire che “un ingegnere borghese vale dieci comunisti”. La pace con i tedeschi e il neocapitalismo della Nep sono due controrivoluzioni, seppure argomentate con la solita profusione di parole, e Malaparte disprezza questo Lenin meschino che si “piega al buon senso”, e arriva addirittura ad ammettere i suoi errori. Visto oggi, avrebbe potuto essere quasi un lieto fine. Il vero Genghis Khan attendeva nell’ombra di Lenin, per deporlo poi nel mausoleo, con la sua borghesissima cravatta nera a pois bianchi, e farne il dio della sua religione sanguinaria.