Da Breton al '68, storie di cospiratori-poeti e delle loro rivoluzioni da cabaret
Le liaison più o meno perverse tra estetica e politica. Un libro
L’Otto e il Novecento sono stati i secoli delle metropoli e delle burocrazie, dei ceti medi e dell’accelerazione tecnologica: l’epoca in cui la vita si è standardizzata, e l’organizzazione sociale ha esteso il suo dominio sulle comunità e sui singoli. Politica e arte hanno inseguito questa metamorfosi per tentare di guidarla o sovvertirla: nel primo caso elaborando teorie pseudoscientifiche sul proprio ruolo, nel secondo indulgendo a colpi di mano anarco-individualisti. A volte si sono equivocamente mescolate: la politica è diventata estetizzante e l’arte ha finto di essere azione, di morire come oggetto per prendere il potere come immaginazione informe. In tutti e due gli ambiti sono sorte avanguardie militanti, sette spesso destinate a emergere, a levare il loro inno e a sparire con la velocità di angeli ebraici, in una successione vertiginosa di putsch. Le incursioni squadriste, le scomuniche, le faide interne a futurismo, surrealismo e situazionismo hanno proceduto di pari passo con quelle di gruppi nichilisti e comitati centrali, così come l’iconoclastia artistica ha evocato le bombe anarchiche.
Oggi Diego Gabutti riassume questa storia nel suo “Cospiratori e poeti. Dalla Comune di Parigi al Maggio 68”, un libretto Neri Pozza deliziosamente illustrato. Gabutti parte da Blanqui, che mentre i suoi seguaci animano la Comune scrive in cella un testo borgesiano ante litteram, “L’eternité par les astres”, dove i destini umani si biforcano in universi paralleli. Nel 1972, un secolo dopo la sua pubblicazione, Guy Debord scioglie l’Internazionale Situazionista, sussulto estremo della Parigi capitale moderna. In mezzo si dipana l’avventura delle avanguardie storiche, che possono allearsi sia col fascismo sia col comunismo, entrambe rivoluzioni “da stress post traumatico di guerra”. L’ultima di queste avanguardie, quella liquidazione totale al marchéauxpuces che va sotto il nome di surrealismo, e che fu incubata nel limbo zurighese dove i dadaisti giocavano a scacchi con Lenin, si spaccò davanti all’Urss staliniana. A Breton i processi di Mosca ricordavano “Ubu roi”, anello di congiunzione tra il simbolismo e i manifesti del Novecento; eppure alcuni suoi compagni si piegarono alla loro logica, incarnando la sinistra figura del poeta-gregario. Ma le liaison più o meno perverse tra estetica e politica non nascondono la diversità dei loro orizzonti. Una cosa sono gli jihadisti belle époque, magari approdati all’anarchismo dal crimine puro come Ravachol; un’altra cosa è la bohème che li celebra nei caffè. Tanto più che “gli anarchici restavano rivoluzionari in politica e conservatori in arte, mentre i poeti simbolisti e i patafisici à la Jarry erano rivoluzionari in arte e solo vagamente di sinistra in politica”. Così più tardi, quando i surrealisti pretesero di fondere le rivoluzioni, s’infilarono da soli in una “trappola”: “Timorosi di perdere il treno della modernità, sul quale (…) viaggiavano i partiti operai, erano saltati a bordo senza biglietto; e adesso il controllore, che li aveva beccati mentre schiamazzavano al vagone-bar con trombette, objectstrouvés e putipù, minacciava di farli scendere alla prima stazione”.
Ricapitolando questi equivoci dal cabaret di un futuro in cui appaiono ormai residui di modernariato, Gabutti si diverte a giocare con i paragoni pop, e descrive i drammi ideologici del XX secolo come intrighi da feuilleton, “polar nichilisti” alla Malet dove gli avventurieri reali tornano a essere i Fantômas a loro ispirati. Ma col lato notturno della cospirazione c’è anche quello diurno dell’utopia. Se i Fourier “avevano lo svantaggio d’essere malvisti da tutti”, e derisi dai marxisti che consideravano i loro parti “film di serie B, cinepanettoni socialisti”, avevano però “il vantaggio di non dover porre limiti alla propria immaginazione estetica e politica. Nessun calcolo per arruffianarsi la canaglia e niente compromessi per compiacere le autorità”. Al posto di autoritarismo e tattica, una prefigurazione d’illimitate cuccagne riemersa fino al ’68. Il situazionista Vaneigem attribuì la suggestione di Fourier al suo merito “d’aver messo in luce la necessità di realizzare immediatamente le condizioni oggettive dell’emancipazione individuale”. In questa ansia d’immediatezza, e nella difficoltà di conciliarla con una trasformazione su larga scala, sta il tema profondo della storia qui narrata. Il tempo dell’esistenza individuale non coincide con il tempo della società. Il matrimonio di Rimbaud e Marx è velleitario perché “cambiare la vita” significa rinunciare a “cambiare il mondo”. O ci si “sregola” o si progetta: e la seconda strada implica l’inibizione degli impulsi, la consegna a uno spietato stoicismo in nome del sole che verrà. E’ il contrasto tra l’anarchico e il comunista, tra il presente e il futuro, o tra Marx e il genero Lafargue, che col “Diritto alla pigrizia” scrive il manifesto di un “marxismo ‘negro’, come il jazz”. “Ne travaillez jamais”, gli farà eco il Debord graffitaro su un muro di Rue de Seine. E davanti alla sua foto ci si chiede se l’avanguardismo non si fondi sul talento pubblicitario – come nel caso Dreyfus, che partorì l’opinione pubblica del Novecento, l’engagement si fondò su un’esibizione da melodramma. L’Internazionale Situazionista nacque a una festa di nozze in provincia di Imperia: messa così è puro grigio Cechov, e invece, quasi “a sua insaputa”, quel miscuglio di alcol e chiacchiere si trasformò nel mito di una conferenza fondativa.
Non che Debord non avesse da dire qualcosa di significativo, come prima Breton. Le loro idee erano anzi a tal punto attuali da divenire presto indistinguibili dalla realtà. Noi viviamo in un mondo situazionista e surrealista, in mezzo alla “poesia messa in pratica”, cioè al kitsch: ci muoviamo sonnambuli tra accostamenti arbitrari e détournements, ma in un’entropia esistenziale, estetica e sociale che non prevede emancipazioni. I desideri realizzati, commenta Gabutti, appaiono irriconoscibili come nelle fiabe. Il successo equivale all’estinzione, il sogno al carcere della veglia. Resiste lo stile di certi libri, ad esempio del miglior Debord, di cui l’autore apprezza “la gelida compiaciuta perfezione delle argomentazioni, la scelta accurata delle metafore, il suo sprezzante senso dell’umorismo”. Forse è un suo modello. Più domesticamente, e idee a parte, Gabutti ricorda Ruggero Guarini: è rapido, spiritoso, tagliente, qua brutalmente aforistico e là armato di una fredda razionalità da ghigliottina. C’è però un difetto nel suo approccio: troppo spesso appare insieme nostalgico e sprezzante. Vuole liquidare ciò che è sciocco e criminoso, ma poi sopravvaluta parecchi episodi in cui, tra lampi d’intelligenza e charme, particolarmente forte tira il vento dell’imbecillità. La sua sprezzatura stride accanto alle chiose zelanti da nerd, eccessivamente intenerite dal pathos boulevardier e dagli “Enfants du paradis” non a caso cari a Pannella, il nostro politico-esteta più francese. Al fondo, le intenzioni di Gabutti restano poco chiare: perché ha scritto questo libro, se l’irrisione ne schiaccia le figure? Perché non ha mostrato più pietas, se un amore autentico gli stringe il cuore? Gli tocca la nemesi del cinico, che è sentimentale ma non sa dare forma al suo sentimento. Capita così che maramaldeggi: come quando nelle varie incarnazioni della lotta contro le “diseguaglianze” vede sempre la “stessa fuffa demagogica”. Scivolata volgarotta; ma perdonabile, se si immagina il dolore irrisolto con cui guarda alla fine di quella storia di cospiratori e poeti che per lui coincise con l’inizio della vita adulta.