Lo stile e la scrittura di Tom Wolfe
Lo scrittore si era definito “neo-pretentious” nel suo modo di vestire. Ma nei suoi libri era l'esatto contrario
L’ultima volta che lo hanno crocifisso – parlando di letteratura – fu quando scrisse “Io, Charlotte Simmons”. Come osava uno scrittore maschio settantenne scegliere come protagonista del suo romanzone una ragazza al primo anno di università? Come poteva un gentiluomo della Virginia che aveva come divisa i completi bianchi con l’orologio nel panciotto e certe scarpe bicolori personalmente disegnate e fatte fare a Londra, raccontare una ragazza con l’ombelico scoperto? Come poteva, e soprattutto come osava?
Poteva, certo che poteva. E osava, certo che osava. Questo fanno i grandi scrittori: inventano. Se raccontassero soltanto le faccende di cui hanno esperienza, i romanzi sarebbero di una noia mortale. Lo stanno diventando, con la mania dell’autofiction, e delle esperienze in cui rispecchiarsi. Tra parentesi: c’è stato un tempo felice in cui i lettori credevano di riconoscersi in Proust, non nella cugina Sofia che non riesce a rimediare un moroso.
Mica è necessario metter sotto con la macchina un giovanotto nero nel Bronx, per scrivere “Il falò della vanità”. E raccontare, si era nel 1987, la commedia umana che si scatena attorno al finanziere di Wall Street – Master of the Universe, per gli amici e per i nemici – che sbaglia strada, e oltre al resto ha un’amante da tener nascosta alla moglie. Brian De Palma ne ha tratto un film nel 1990. Ma con tutto il rispetto, la sua cinepresa non riesce a stare dietro alla prosa di Tom Wolfe, generosa e degna di Balzac.
Gli danno la colpa anche del new journalism, che una volta era una cosa seria e oggi significa “inizia l’articolo dicendo che lo scrittore sorseggia una tisana”. Secondo la leggenda, stufo di combattere con un articolo che gli resisteva, mandò al caporedattore i suoi appunti e i suoi dubbi. Furono pubblicati tali e quali. Nel 1964 salì sul pulmino che girava gli Stati Uniti distribuendo LSD per spalancare le porte della percezione (un’idea di Ken Kesey, lo scrittore di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”).
Aveva definito “Neo-pretentious” il suo stile vestimentario. Il suo stile di scrittore era esattamente il contrario.