Leggere “Volevo uccidere Jean-Luc Godard”
La verità su Cannes 1968 nei deflagranti racconti del regista Ian Nmec
“Invece delle proiezioni ci fu un’assemblea. Potete immaginare un’idiozia più grande al festival di Cannes? Quegli idioti, allora, erano il potere.”
Prima o poi andrebbe raccontata per bene, la vivacissima vita del regista ceco Ian Němec, regista e autore dei trentuno deflagranti racconti che compongono “Volevo uccidere Jean-Luc Godard”, raccolta pubblicata da Miraggi edizioni e molto apprezzata nei giorni del Salone del Libro. Talento rovente classe 1936, enfant terrible e “saltimbanco dell’est”, vispo libertino, glorioso maleducato e intellettuale fuori rotaia, fu capace, in quel cruciale festival del maggio 1968, di corrompere Monica Vitti e Louis Malle per portare a casa, con i connazionali Miloš Forman e a Jiří Menzel in concorso insieme a lui, trofei concordati a tavolino col direttore Robert Favre Le Bret. Il quale garantì l’esercizio spietato di tutta l’influenza possibile per realizzare un piano perfetto in tre fasi: mettere strategicamente in competizione l’uno contro l’altro, far guadagnare la Palma d’oro a uno dei tre e insignire di riconoscimenti non meno autorevoli gli altri due (il che avrebbe voluto dire strada spianata per ulteriori riconoscimenti nei festival d’autore internazionali). Giubilo generale: Láďa K., direttore della Filmexport e capo della delegazione ceca, già delirava di business a destra e a manca, già s’affaccendava a vendere i diritti di distribuzione mondiali, già familiarizzava a colpi di brindisi coi tedeschi dell’ovest giunti a Cannes in yacht per comprare film porno. “Bevete e fate casino!” sbraitava alzando calici e spronando le tre future star. “Porteremo a casa la Palma, il Politburo sarà contento e la gloria della cinematografia socialista sarà grandissima! Spendete e spandete, costruite i vostri contratti nelle camere d’albergo, ho un conto illimitato per le spese”. Gran talento nell’interpretare le cose alla lettera e nel cacciarsi in guai abnormi, Ian Němec obbedì, e nel racconto “Cannes 1968 e la verità su quel che accadde” – roba così scorretta non la si leggeva da un po’ – scrive: “Nella hall del nostro albergo stava seduta, troneggiando, una bella puttanella, una scura cioccolatina. Dagli scambi di sguardi avevo visto che non solo aveva un bel viso, labbra e occhi, un bel corpo e seni abbondanti, ma anche un animo meravigliosamente capace di comprendere un artista”. E fu così che prese il volo il denaro raccolto dai tre registi per finanziare la produzione di un filmino socialista sul racconto del trionfale festival. La benevolenza della ragazza fu ottenuta nonostante la cifra corrisposta non fosse completa, dietro garanzia che, all’alba del giorno successivo, il gentiluomo si sarebbe dato alla questua per versare la parte mancante dell’emolumento. Promessa mantenuta: ebbro di fedeltà alla parola data, Ian fece ingresso al Carlton e si rivolse alla prostituta. “Darling, ecco quel che ancora ti dovevo per stanotte!”. Senonché, vuoi lo champagne, vuoi i bagordi, la fanciulla non risultò essere la meretrice, bensì una principessa, moglie di un alto funzionario della delegazione ufficiale di un Paese del terzo mondo. La fucilazione sul posto fu evitata per un soffio e lo scandalo sfolgorò in prima pagina sul Nice Matin.
Dal giorno dopo, le acque si agitarono. Němec racconta: “Nei canali di scolo più oscuri si cominciava sentire: basta con l’arte borghese! Basta col festival!”. Ma i nostri tre eroi vagheggiavano ancora il trionfo. E quando, in uno sprazzo di lucidità, si accorsero che la bandiera nazionale era stata dimenticata a casa, pensarono di disarcionarla dal colonnato del palazzo del festival: Forman si arrampicò sull’asta, la spezzò col suo peso e precipitò a terra, mentre il pennone si abbatté di traverso sulla Promenade. Ma fu l’ultimo atto. Dal giorno dopo, fine dei sogni di gloria: Godard, menando colpi in testa con l’asta del microfono a chiunque reclamasse le proiezioni, sabotò il festival, mentre altri invasati laceravano schermi a coltellate. Forman ritirò il suo film e si allineò.
La storia finì con spaventose quantità di libagioni, già acquistate per i festeggiamenti, da smaltire in un colpo. E con un brusco risveglio: la cacciata dall’hotel, una hall gremita di detestabili contestatori, e la rabbia – che durerà una vita – verso i propugnatori di una rivoluzione da cui, semmai, si voleva fuggire. Quindi la fuga verso l’Italia senza pagare il conto. “Pregustandoci”, sogghigna Němec quasi fosse Dovlatov, “la quiete di una terra senza rivoluzionari”.