Roth, l'animale scrivente

Il demone “funny” di Philip raccontato dall’amico Harold Bloom e i dolcetti al cioccolato di casa Monda

New York. Harold Bloom ha quasi 88 anni e ha la bronchite, ma con il filo di voce che ha a disposizione parla con trasporto di “Philip”, chiamandolo soltanto per nome, per via di un’antica amicizia che “non si è interrotta bruscamente, ma è più semplicemente svanita nel nulla”. E’ la vita, quella che Roth ha raccontato nei suoi romanzi, mettendo le dita nelle pieghe del metafisico e del morboso ma anche del banale: “Ho venduto il mio appartamento di New York e mi sono trasferito in modo permanente in Connecticut. Ci siamo persi di vista, negli ultimi dieci anni ci siamo forse scritti due messaggi, ma molto belli e graditi”, dice il decano dei critici letterari americani, quello che con il Canone occidentale ha tracciato un confine fra il prima e il poi. Il giudizio sull’autore è immutato: “E’ ovviamente uno dei più grandi scrittori americani, e sarà ricordato a lungo soprattutto per due romanzi: Pastorale americana e Il teatro di Sabbath, che per me è il suo capolavoro”. Nel pantheon dei contemporanei americani lo accosta soltanto a pochi altri grandissimi, anche se “nessuno ha talenti di proporzioni simili a quelli di un Faulkner”. “Se me lo avesse chiesto qualche giorno fa, le avrei detto che i più grandi scrittori americani viventi sono Thomas Pynchon, il Don DeLillo di Underworld, Cormac McCarthy e Philip”. Perché, scusi, ora ha cambiato idea? “No. Soltanto Philip non è più vivente”.

 

Nella visione bloomiana l’artista è colui che è abitato dal demone, nel senso del daimon greco, il genio a cui ha dedicato uno degli ultimi libri sul sublime americano. Che Roth fosse pervaso da questo demone si vede “dagli enormi doni che aveva: una scrittura sublime, capacità di penetrazione psicologica, di sintesi, l’abilità di costruire mosaici narrativi nei quali era secondo, fra i suoi contemporanei, soltanto a Pynchon”. Ma non tutti lo hanno riconosciuto, il demone. Molti hanno notato la coincidenza beffarda: Roth muore nell’anno in cui l’accademia svedese non assegna il Nobel per la letteratura, premio che non gli è mai stato dato e che – sostengono alcuni – non ha mai davvero desiderato. “Io l’ho nominato almeno sei o sette volte ma non glielo hanno mai dato perché dicevano che era misogino, cosa che ovviamente è falsa”, dice Bloom, che è stato a sua volta al centro di un mucchio di pettegolezzi su certe libertà che si prendeva con le studentesse dopo una rivelazione di Naomi Wolf con ventun anni di ritardo. Coincidenza delle coincidenze: il Nobel non viene comminato per una serie di storie di abusi sessuali. Il genio trova il suo riflesso nell’uomo, che Bloom ricorda innanzitutto come “funny”, divertente: “Di persona era divertentissimo, era come uno di quei comici che nella vita normale sono anche più divertenti che sul palco. Poi era incredibilmente arguto, tagliente”.

 

Aggiunge qualche pennellata al quadro umano Antonio Monda, scrittore e agitatore culturale a metà fra il cinema e la letteratura che è diventato amico di Roth dopo una cena con la guardia alzata alla fine della quale il monumentale ospite ha capito che il padrone di casa non voleva nulla in cambio. “La cosa che mi ha sempre colpito è che era un uomo curiosissimo – dice Monda – voleva capire, faceva sempre domande, si interessava di tutto, aveva l’umiltà che è propria delle persone davvero intelligenti. Era notoriamente ateo ma era profondamente interrogato dal cattolicesimo”. E proprio sullo sfondo di una sagrestia tormentata e un po’ rothiana, quella raccontata da Monda ne L’indegno, uscito pochi giorni fa in America con il titolo Unworthy, si colloca forse l’ultima apparizione pubblica dello scrittore, che ha firmato il più prestigioso dei blurb. “A marzo è venuto a casa nostra – racconta Monda – gli ho dato il manoscritto del mio libro e gli ho chiesto un parere da amico, un parere ‘candid’, sincero, pregandolo però di essere ‘kindly candid’ se non gli fosse piaciuto. Due settimane più tardi ho ricevuto una lunga lettera con le sue osservazioni, alcune critiche e puntute, com’era a volte lui, ma anche incredibilmente cordiali e gentili”. Da assiduo frequentatore di cinema d’essai dell’Upper West Side e vorace consumatore di dvd, amava incontrare a casa Monda le celebrità cinematografiche che orbitano attorno al direttore artistico della festa del cinema di Roma. Nella selva degli aneddoti rimane leggendario il suo incontro con Al Pacino, che stava acquistando allora i diritti per mettere in pellicola The Humbling. L’attore si presenta con la deferenza di chi s’accosta a un maestro: “Piacere, Al”, e riceve la risposta più rothiana: “I know who you are”. Forse a casa Monda, però, cercava anche qualcosa di diverso dalle conversazioni letterarie. Un po’ di calore umano, il riflesso di un focolare che mancava altrove, i figli che vengono e vanno per le stanze, la moglie Jacquie che sorride e porta i suoi adorati dolcetti al cioccolato.

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