L'immortale Philip Roth, che ha fatto entrare il caos
La politica è generalizzatrice, la letteratura è particolareggiatrice
In Ho sposato un comunista, romanzo pubblicato nel 1998 (il decennio dei capolavori di Philip Roth: Pastorale americana e Il teatro di Sabbath), Roth ha fatto una distinzione per me fondamentale, illuminante, tra politica e letteratura. In una frase soltanto, pronunciata da un giovane professore universitario: “La politica è la grande generalizzatrice, e la letteratura è la grande particolareggiatrice, e non soltanto esse sono tra loro in relazione inversa, ma hanno addirittura un rapporto antagonistico”. E subito dopo, ecco il suo manifesto di scrittore, la sua professione di fede: “Come artista, le sfumature sono il tuo dovere. Il tuo dovere è non semplificare. Anche se tu dovessi scegliere di scrivere nel modo più semplice, alla Hemingway, resta il dovere di dare la sfumatura, spiegare la complicazione, suggerire la contraddizione. Non cancellare la contraddizione, non negare la contraddizione, ma vedere dove, all’interno della contraddizione, si colloca lo straziato essere umano. Tenere conto del caos, farlo entrare. Devi farlo entrare. Altrimenti produci propaganda, se non per un partito politico, per un movimento politico, stupida propaganda per la vita stessa, per la vita come essa stessa, forse, vorrebbe essere propagandata”.
Philip Roth ha fatto entrare sempre il caos, il tumulto, l’instabilità degli esseri umani, la paura, gli strati di incomprensione. E il sesso come compagno dell’esistenza, come elemento perturbante: prima in competizione con la vita, e poi con la morte. C’è tutto, cosa non c’è in Roth? Si è infilato nella testa e nelle storie specifiche dei suoi personaggi che ritornano (tranne Portnoy, che resterà sempre giovane) e li ha particolareggiati fino a renderli universali, fino a farci sussultare dicendo: sono io, sei tu, diomio che vergogna. O anche: che liberazione. Non ha mai scritto quello che le persone dovrebbero fare, quello che Mickey Sabbath dovrebbe fare, ma ha esposto la sfrenatezza delle emozioni di uomini e donne, l’assurdità delle azioni, la sregolatezza dei pensieri. Ogni volta, anche quando Mickey Sabbath va a sdraiarsi sulla tomba della sua amante, Drenka, e si slaccia i pantaloni, o quando lo Svedese va nell’albergo di New York a portare cinquemila dollari alla crudele amica di sua figlia, noi per un istante pensiamo: no!, e invece subito abbracciamo quel caos, quel racconto tragico della vita umana impreparata alla tragedia, che non cede mai alla generalizzazione. E infatti lo Svedese si siede e tiene a lungo la mano di sua moglie, proprio nel pieno del tradimento di lei, “come un uomo tiene la mano della donna che adora”. Dovrebbe essere rabbioso, e invece le tiene la mano.
Nell’ultima intervista data al New York Times, all’inizio del 2018, Philip Roth aveva detto di stupirsi ogni sera e ogni mattina di essere ancora vivo (“Ho vissuto un altro giorno”), e che come scrittore aveva fatto del suo meglio: più di cinquant’anni di potenza creativa unita a una disciplina fortissima. Non gli interessava sapere come lavorassero gli altri scrittori, e se fossero pazzi quanto lui, che ogni giorno della settimana, mattina e pomeriggio, si sedeva alla scrivania, a sottolineare una frase, a girarla, a odiare il suo romanzo e a costruirlo. Provando “frustrazione e libertà. Ispirazione e incertezza. Abbondanza e vuoto”. E’ stata quella la sua vita, come ha detto nel 1981 al Nouvel Observateur: “Anche l’arte è vita, capisce? Isolamento è vita, fingere è vita, fare congetture è vita, contemplare è vita, la lingua è vita”. I suoi libri, immortali, sono vita: raccontano gli sbagli, e i desideri, e poi ancora gli sbagli e l’inaspettata grandezza di noi straziati esseri umani.