L'errore di Fedeli, che vuole femminilizzare la lingua per editto di stato
La lingua non si cambia per editto di stato, neanche con una teoria linguistica corretta; alla lingua, come al cuore del detto popolare, non si comanda
Il 17 di maggio la ministra dell’Istruzione, Valeria Fedeli, ha inviato a tutte le scuole italiane una circolare che richiama l’attenzione alle linee guida su “Educare al rispetto: per la parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le forme di discriminazione” pubblicate nel 2017. La circolare ripropone così il documento in cui si trovano tante indicazioni meritorie su rischi di linguaggi di odio e comportamenti discriminatori, in particolare verso le donne, e anche la saggia esclusione dai programmi educativi delle “ideologie gender”, ma cerca allo stesso tempo di riaffermare una politica linguistica.
Tralascerei le considerazioni storico-filosofiche del documento, che lasciano un po’ perplessi, visto che riconducono il maschilismo della cultura a dicotomie come mente/ corpo, logica/ istinto, ragione/ sentimento attribuite erroneamente all’intera storia filosofica dell’umanità quando invece si tratta di istanze tipicamente moderne. Ovviamente, ciò non toglie il dato della costituzione al maschile della cultura umana né il contributo che la filosofia femminista – insieme a ermeneutica, pragmatismo, fenomenologia – ha dato e sta ancora dando al superamento di dicotomie il cui danno non è stato limitato alla concezione di genere. In un documento ufficiale per professori, però, occorrerebbe forse una maggior cautela storico-filosofica. In fondo, anticipando Fedeli e Boldrini, i cristiani dicono dall’XI secolo “avvocata nostra” in una delle più celebri preghiere mariane.
Il punto davvero dubbio della circolare e delle linee guida, però, è il tentativo di imposizione dall’alto delle nuove parole al femminile che dovrebbero indicare ruoli di responsabilità storicamente non assunti dalle donne in precedenza. Alle scuole si raccomanda di insegnare la correttezza del dire assessora, medica, difensora, revisora, sindaca insieme alle ormai accettate critica, funzionaria, senatrice, deputata. Si capisce il ragionamento che viene svolto per tale promozione di stato: certe parole esistono solo al maschile perché frutto di una cultura maschilista che ha riservato certi posti solo a maschi. Ora che tali posizioni vengono occupate anche dalle donne è giusto declinare le parole al femminile. La lotta sul linguaggio è quindi una lotta per l’emancipazione. Il documento illustra la possibilità linguistica della creazione di queste parole, sulla quale c’è poco da eccepire. Lascia più dubbiosi, invece, la concezione determinista del legame potere/ parola/ genere che sarebbe l’unica causa del trovare certe parole solo al maschile. Qualche controesempio viene infatti in mente: come si spiegano secondo questa teoria le parole come guida (suprema) o guardia dove, anche per ruoli di responsabilità, esiste solo il femminile?
Al di là della correttezza dell’ipotesi linguistica, che probabilmente avrà delle spiegazioni per i controesempi, e al di là della questione politica, per cui è sicuramente vero che ci sono stati e ci sono ancora molti luoghi di responsabilità e potere che sono apertamente o nascostamente maschilisti, è sulla scelta di tentare un cambiamento del linguaggio dall’alto che si trova un baco di concezione del linguaggio. La lingua non si cambia per editto di stato, neanche con una teoria linguistica corretta; alla lingua, come al cuore del detto popolare, non si comanda. Si può proibire di usare certe parole in certi ambienti o situazioni ma, come dimostra l’uso ormai globalizzato delle cosiddette “parolacce”, non si può impedire per editto che una parola entri nell’uso o ne venga respinta. Ci sono filosofi che hanno sostenuto che noi siamo il linguaggio – o quello parlato o quello dei segni di cui le parole sono un ambito. Possono avere più o meno ragione ma di certo il legame tra linguaggio, essere umano e mondo è così forte da non permettere di cambiare il linguaggio arbitrariamente. Il linguaggio è un abito di azione, una sorta di consuetudine, che si assume o non si assume in un lungo arco di tempo perché gli esseri umani lo trovano utile per muoversi nel mondo, adatto per esprimere e sviluppare dei significati. Alcune nuove parole hanno immediata accoglienza e altre, anche se teoricamente giuste, non entrano nell’uso. Un linguaggio adottato per arbitrio di potere e non per amore e necessità storiche finisce per essere come il newspeek di Orwell o certe invenzioni linguistiche dei regimi totalitari: diventa un’ideologia, con i suoi inevitabili corollari di ridicolo e violenza. Se la ministra è convinta della necessità di declinare al femminile alcune parole, faccia la sua battaglia, come tutti, attraverso l’uso.