L'attenzione e il rispetto: le virtù della vera conoscenza malamente dimenticate
Piccola riflessione su cosa unisce Simone Weil a Kant (e a noi)
“Signorina Weil, preferisce esser qualificata una spiritualista o una fautrice della prassi? Ci può dire, in una battuta, se la sua morte per inedia è stata volontaria?”. Così, negli anni Ottanta, Piergiorgio Bellocchio immaginava un mostruoso faccia a faccia tra la pensatrice francese e un telecronista impaziente di cedere la linea a Poltronieri per il Gran Premio. In modi meno brutali, ma più insidiosi, molti interpreti hanno provato a separare in lei la militante rivoluzionaria degli anni Trenta, che polemizza coi gruppuscoli marxisti, si consuma alla catena di montaggio e si arruola con Durruti in Spagna, dalla mistica che all’inizio della guerra intreccia un dialogo con due religiosi cattolici, e che secondo alcuni si sarebbe convertita in extremis in un sanatorio del Kent.
Tra i pregi di “Leggere Simone Weil”, il volume edito da Quodlibet in cui Giancarlo Gaeta riunisce oggi i commenti che le ha dedicato lungo un’intera vita, c’è anche una critica serrata a questa interpretazione. La passione cristiana non rimpiazza nella Weil quella sociale; semmai, la scoperta delle menzogne che pervadono anche i movimenti di sinistra la spinge a indagare a fondo le aporie dell’azione politica, a rifiutare il velo dei risarcimenti ideologici gettato su un mondo dove la forza e la necessità dominano ogni rapporto, e a distinguere nettamente questo mondo dal Bene assoluto. Il legame tra i due piani è misterioso, forse inafferrabile: ma solo l’intuizione di un tale assoluto permette d’incarnare la giustizia nel regno del relativo. Questa giustizia coincide con un equilibrio che viene raggiunto quando si contemplano le contraddizioni umane senza fingere di poterle risolvere. E’ il compito della filosofia che evita le false quadrature del cerchio dei sistemi, e più generalmente della virtù dell’“attenzione”, cioè di uno sguardo che rinuncia a ogni attaccamento per riconoscere “le cose come sono” nel loro aspetto nudo, irreparabile ma anche felice, perché ciò che è reale purifica e dà gioia perfino se è doloroso, mentre l’euforia indotta da desideri e fantasie irreali sfocia in un dolore impuro, “sprecato”. Alain, che l’aveva iniziata alla casta limpidezza razionalistica dei classici, intuì il rigore di questa morale geometrica già in uno dei primi saggi politici di Simone, annotando che gli sembrava un “Kant continuato”.
Mentre leggevo questo passo nel libro di Gaeta, pensavo all’unica inclinazione del cuore a cui l’autore delle “Critiche” concede un ruolo nella sua etica astratta: il “rispetto”, sentimento puro e riconoscibile “a priori”, attraverso il quale la legge si fa sensibile in quell’essere finito che è l’uomo. A differenza dell’amore o della paura, che anche gli elementi naturali riescono a ispirare, il rispetto “concerne sempre soltanto le persone”, e ci tocca che lo vogliamo o no: posso camminare a testa alta davanti a un subordinato per fargli pesare la sua condizione, dice Kant, ma se rivela “rettitudine di carattere in misura superiore a quella che vedo in me stesso”, il mio spirito s’inchinerà mio malgrado. Questo sentimento costringe a onorare i limiti, a sgonfiare la bolla dell’amor proprio e a riconoscere l’altro, cioè la realtà. Rispetto, attenzione: due tra i massimi pensatori della modernità, alla sua alba e al suo tramonto, hanno indicato gli atteggiamenti umani più nobili o addirittura sublimi con due parole dall’apparenza modesta, a cui noi diamo di solito un significato prosaico e angusto (“sta’ attento”, “un po’ di rispetto”), mentre al contrario carichiamo di suggestioni enfatiche tutto ciò che ci sembra “estremo” in senso un po’ romantico e un po’ sportivo – tutto ciò che è alonato dai fantasmi dell’immaginario, che derealizza la vita riducendola a proiezione o automistificazione, e che sta tra un amore-passione e una ferocia ricalcati su stereotipi social-hollywoodiani. Sono i sentimenti dei narcisi che si autodistruggono o dei loro fratelli sadici, tendenzialmente totalitari, che per possedere il mondo devono trasformarlo in un sogno illusorio dove non si percepiscono più ostacoli: né realtà, né limiti, né altre creature umane.