Architetture d'ansia
Pieni e vuoti, spazi liberi e terrazze metafisiche. Apre a Venezia la Biennale dell’età dell’incertezza
Non sarà come quella d’arte, con tutto il caravanserraglio e le vacanze intelligenti: però anche la Biennale d’Architettura che si apre oggi a Venezia è un bel termometro dei tempi. E’ la prima dell’era grillina, è quella della crisi identitaria, dell’Europa sfilacciata e dei sovranismi, di Trump, di Brexit: insomma dell’ansia. Divisa come sempre tra Giardini e Arsenale, quest’anno divisa soprattutto sul tema – la Biennale ha sempre un tema, e uno svolgimento – questa volta si chiama “Free space”, spazio libero, e tutti i paesi lo interpretano molto liberamente. Soprattutto, visitandola, pare che abbiano interpretato “free” per “gratis”, più che libero, quindi spendendo pochissimo. Del resto ogni paese ha i suoi guai (e si vede): “free space” con questo nome da droga ricreativa (quanto ci vorrebbe), e invece è il tema assegnato dalle due architette che curano questa edizione, le signore Shelley McNamara e Yvonne Farrell dello studio irlandese Grafton, che sembrano professoresse più che primarie archistar. Come supplenti un po’ spaesate le due signore non riescono tanto a tenere la classe, e il tema molto libero, tipo “parlami della tua famiglia”, viene buttato un po’ in caciara. Il sottotitolo confonde più che chiarire: “Celebrare la capacità dell’architettura di trovare generosità inaspettata in ogni progetto”, mah. Anche il body language conta. Niente a che vedere con l’ultima Biennale, guidata dal professore bonazzo, di spagnolo per di più (ma con faccia da educazione fisica), Alejandro Aravena, dal Cile, che qui oggi adesso torna e passeggia con gli occhi color laguna, facendo sognare le allieve.
“Free space” il tema, con un sottotitolo che confonde più che chiarire. Shelley McNamara e Yvonne Farrell le curatrici
Così gli studenti di questo erasmus architettonico fanno un po’ come gli pare: e ognuno cucina quello che ha in casa; nei magnifici giardini, gli spagnoli che due anni fa hanno vinto quest’anno mostrano di non volersi impegnare molto, solo una cena fredda. Ecco un padiglione vuoto – il primo di tanti – con dei tori e delle pubblicità di jamon serrano, che però non è in degustazione. Accanto, il padiglione olandese (vuoto anche questo) è fatto a locker room con tanti armadietti arancioni – i paesi nordici sono avvantaggiati perché hanno padiglioni di archistar d’epoca, quindi anche vuoti fan la loro figura, questo è di Rietvield, quello della famosa poltroncina zig zag. E aprendo gli sportelli si schiudono immagini e porticine e video, e ognuno può apprezzare la precisione delle finiture e delle cerniere.
Vuoto come un curriculum ministeriale è anche il padiglione del Belgio, che però è molto politico e concettuale: la mostra si chiama Eurotopia e dentro ha solo un gigantesco palco blu come lo stemma europeo, ma senza stelle, dove ci si può sedere, e si sente negli altoparlanti qualcosa che somiglia all’Inno alla gioia su un disco rotto. Che ci dobbiamo fare con questa Ue? Come renderla sexy?
Chi ne sta fuori, dalla Ue, pare di capire, è molto più allegro. Il padiglione più fico è infatti quello svizzero, con la mostra Svizzera 240, dove 2,40 è l’altezza media standard di un appartamento, e si entra in una casa standard con caratteristiche medie – parquet chiaro, pittura bianca, prese di corrente bianche – e poi aprendo delle porte si entra improvvisamente in versioni da nani del medesimo appartamento, e poi in versioni giganti, tanto che non si arriva alle maniglie delle porte, e sembra di stare in Alice nel paese delle meraviglie o in un Salone del Mobile dopo aver assunto del Free space. Comunque, si sorride.
Depressissimi invece i tedeschi, con questa installazione che sembra curata da qualche bavarese imbruttito di quelli che calano sul lago di Garda pigiando sull’acceleratore e sullo spritz: è uno dei pochi stand pieni, e dentro ci sono tanti totem neri ed è dedicato al concetto di confine e di muro. Si chiama “Unbuilding walls”, celebra con poca fantasia i 28 anni dalla demolizione del muro di Berlino (e la sua esistenza durata 28 anni) e tra inquietanti parallelepipedi neri che sembrano paline di tram di Monaco o Amburgo, e cartine e fotografie, suggerisce che intorno al muro fiorivamo ferrovie e tramvie e metropolitane e anche una scena musicale top; e insomma sembra un gran manifesto inconscio della più pura nostalgia. Si stava meglio quando si stava peggio: indecisi se essere locomotiva o vagone di mezzo, generosi o gelosi, aperti o chiusi, i tedeschi son anche gli unici in tutta la Biennale che tentano di ricavare dei denari dalle shopper: quelle borsette di tela che tutti ti rifilano, e tu regali a tua mamma, o butti nel cassonetto prima di salire sul vaporetto. Son cinque euro, dicono. Grazie, ci pensiamo un attimo.
Furbamente depressi sono invece i britannici, che sanno decadere con chic ineguagliabile. Il padiglione Uk sta in fondo a una delle due strade dei Giardini, sta lì, il più vuoto di tutti. I due curatori, Adam Caruso e Peter St John (che nomi!), architetti cinquantenni col sorriso spento e il golfino sulle spalle tipo “Il danno”, sussiegosi e soft spoken, stanno sul tetto, trasformato in terrazza, su cui si sale tramite una ripida scala di tubi Innocenti. Sotto, proprio niente: il padiglione è sgangherato con ancora le briciole e i calcinacci della Biennale d’arte scorsa. Tutto si svolge dunque on top, sul tetto, dove si ammirano la laguna e i suoi uccelli migratori e si evita l’acquazzone sotto eleganti ombrelloni (avranno fatto uno spesone al Brico di Mestre). Una postazione tipo rifugio di montagna distribuisce tisana di Verbena, che, come si sa, ha funzione rilassante e antidepressiva.
Mostra nella mostra: una fondamentale esposizione di Cino Zucchi su Caccia Dominioni: foto, progetti, maquette
Il padiglione è considerato molto cool e sulla terrazza, sotto un altro ombrellone, aspettando che spiova, stanno i due gemelli fondamentali editori di Brownbook (il Monocle del medio oriente), che bevono la loro tisana e si guardano, senza dire una parola. Seduti sotto i loro ombrelloni anche Caruso e St. John, che guardano San Servolo e il Lido in lontananza. L’installazione si chiama “Island”, con quote di John Donne: no man’s island, nessun uomo è un’isola. E una penisola? Caruso pensa molto e poi dichiara: “L’architettura è un medium” (pausa). “Serviva un sotto abbandonato per farvi salire sopra”, dice solenne e serio. “Era anche il modo per prendere il minor numero di decisioni possibili”. Bastava insomma sfogliare il catalogo Brico. St. John, l’altro curatore, si sta mettendo del collirio negli occhi, lo sguardo si fa ancora più dolente. “Triste di sotto, trova?” Beh, tutto vuoto, coi calcinacci. “Credo che la tristezza faccia parte della vita umana…”, sussurra, bisogna avvicinarsi molto per capire. Cerca di centrare l’occhio con le gocce. “… e per questo l’architettura non possa ignorarla” sospira. Altro collirio. C’entrerà la Brexit? Certo. “Noi inglesi veniamo da lì, e non possiamo celare un certo senso di vuoto”, dice strizzando gli occhi. “Oltre al fatto, ovviamente, che il vuoto è molto economico da realizzare” (si era sospettato).
L’isola delle tisane costruita in coppa al padiglione è un gran basamento a pannelli di truciolato, a scacchi multicolori. Come mai tutto questo legno, a parte i risparmi? “Ah, che domanda interessante”, dice molto stupito, riavutosi dal trance e dal collirio. “Volevo un materiale che fosse malinconico e facile da montare”. E poi ha ricordi struggenti. “Il Teatro del Mondo di Aldo Rossi”. Il teatrino di Rossi fu momento top delle biennali, era un parallelepipedo disegnato dall’archistar milanese (famoso anche per caffettiere geometriche) che poi si spostava e inabissava, “un edificio effimero, su modello del teatro shakespeariano seicentesco, però galleggiante e con tanti riferimenti veneziani”. Altri sospiri. “Abbiamo voluto dunque usare gli stessi materiali per realizzare però qualcosa di diverso: una piazza dove riposarsi, creare una piccola isola in più, e un omaggio alle piazze italiane”, esala sorseggiando la sua verveine, mentre ci viene voglia di andare a cacciare la volpe o la starna, con tutta questa pioggia e questi golfini. Poi però per fortuna ritorna il sole, si scende giù, Caruso e St. John come ufficiali britannici che aspettano solo l’affondamento restano in tolda.
Depressi i tedeschi, furbamente depressi i britannici, che sanno decadere con chic ineguagliabile. Il più fico il padiglione svizzero
I francesi, che hanno la casina accanto, reagiscono diversamente e hanno fatto un set tipo di un’ennesima Piscine, han messo delle sdraio fuori, e dentro invece hanno allestito una camerona o cameretta di adolescente molto disordinato, con scatole di Gauloises e cartelli stradali insieme a generici progetti di recupero di spazi pubblici fisici e condivisi, insomma tutta una roba Godard e Les Mistons e ‘68 forse in una inconscia celebrazione delle attuali okkupazioni alla Sorbonne e di quelle di cinquant’anni fa che stringono il cuore ai nostri maggiori.
Le vecchie superpotenze, un disastro. L’America del #metoo fa tutta una pippa prescrittiva su cittadinanza, e frontiera, e ecologia, con fascine di legna, cotone, cartine geografiche, tipo scuola media (che polvere). La Russia putiniana, nel suo padiglioncino moresco come una villetta di vecchie star del muto, appara una piccola stazione ferroviaria. Un gran video di un viaggio misterioso, “il treno numero due che parte alle 7 da Mosca a Vladivostok”, costui va a trovare una nonna e forse gli accade qualcosa di fondamentale: ma non nei primi minuti. Ce ne andiamo tralasciando anche tutti i dati su appositi grafici con velocità di crociera degne di Furio e Magda, e attiguo locale accanto trasformato in deposito bagagli. Poi salendo al primo piano si scopre che è tutta una cosa pubblicitaria per reclamizzare la nuova stazione Av di Sochi tipo Torino dopo le olimpiadi invernali, e le nuove linee che collegano anche Ekaterinburg (un posto che agli zar non ha mai portato molta fortuna). Tutto uguale all’Expo 2015, anche lì gran viste dagli oblò di un treno (ma che ossessione questi russi per la locomotiva, da Tolstoj a Dostoevskij, viene da chiedersi cosa li ispirasse prima dell’invenzione della strada ferrata). Ma perché non ci fanno vedere invece per esempio la supercar di Putin?
Chi se la cava benissimo col vuoto è invece naturalmente il Giappone, che mette in scena al primo piano prospetti di casette e città sul tema “etnografia architettonica” tra cui un divertente uso di big data personali – case abitate dall’Architetto, messe su una stringa tipo Dna e divise in varie tipologie (ci sono anche case romane tra cui Piazza Bologna e al Quarticciolo, categoria palazzine). Padiglione pienissimo è quello dell’Italia (all’Arsenale) che apre con una vasta disamina delle Alpi, orobie, marittime, con gran cartelloni tipo abbecedario (ma-con-gran-pe-na-le-re-ca-giù! Fanno tutti i più nostalgici). Quello cinese è tutto sul tema “voglio andare a vivere in campagna”, sulla rivalutazione delle cultura villica: e dopo aver sterminato i simpatici contadini con la rivoluzione culturale, adesso ci son fior di progetti con casette pluriservizi per alloggiare le nuove classi medioalte nella valle degli orti.
Al Venezuela si va per capire come si diverrà magari tra qualche anno: ed è utile perché è proprio vuota, ma di un vuoto tipo pignoramento, con pareti neanche intonacate e video che mostrano come si vive bene a Caracas sul paseo Bolivar, e della ruggine che pende dal soffitto tipo metro A a Roma. Il piano regolatore si chiama “espacio rebelde”, spazio ribelle, e nonostante la clemenza della regia i video soprattutto inquadrano palazzoni tipo Gomorra su cui garrisce la bandiera bolivariana.
Le vecchie superpotenze, un disastro. L’America su cittadinanza ed ecologia. Una piccola stazione ferroviaria per la Russia putiniana
Intanto si attendono i barbari, in piedi: sulla terrazza di Cà Giustinian, quartier generale della mostra, tutti si va a sbafare per non incorrere nelle micidiali trattorie veneziane, e si bivacca molto elegantemente (buffet migliorato rispetto all’altr’anno). Si sta però come sul tetto del padiglione britannico, o sul Titanic. Arriveranno i fasciogrillini? Faranno prigionieri? “Manifestazione per ricchi e figlioli della sinistra cattolicissima con casa a Saint Moritz o in centro a Milano”, ha già scritto sul suo Facebook Attilio Terragni, nipote del grande architetto überfascio, condannando quella che è “ormai è solo una mostra provinciale elitaria”. Il povero Paolo Baratta, presidente-preside della Biennale, esperto e cosmopolita (dunque antropologicamente sospetto di questi tempi) conversa in inglese perfetto con Alejandro Aravena (di vini e vitigni rari). Lo trasferiranno a Orgosolo? Arriverà un provveditore agli studi dalla Casaleggio? Faremo una Biennale bibitara?
Qualche inviato già si riposiziona: “Ah, Bannon, che pensatore!”, dice un giornalista Rai. “Sento già che si parla di un ritorno necessario all’arte italiana” dice un espertone stravolto e forse paranoico. “Ma neanche Mussolini arrivava a tanto”, geme. Anzi il Duce “apprezzava che ci fossero movimenti diversi, dai metafisici agli astrattisti ai futuristi, la scuola romana e le altre”. “Mussolini accontentava tutti”, sospira un altro davanti a un prosecco. Si attendono intanto autorità del Mondo nuovo. Waiting for the barbarians. Arriveranno? Quando arriveranno? E come? Certamente non in taxi, come il neopremier al Quirinale: quello acquatico, con le tariffe veneziane, ha un significato tutto diverso.