Cleopatra di Artemisia Gentileschi, una delle opere in mostra a Ferrara

L'euforia incosciente di Caterina Cavallini

Giuseppe Fantasia

A Ferrara una mostra che ripercorre la storia della passione della madre di Vittorio e Elisabetta Sgarbi

“Ho iniziato a partecipare alle aste che non avevo ancora vent’anni. La guerra era appena finita. Allora, però, non battevo opere d’arte, ma un altro genere di opere: opere in muratura perlopiù. Mio padre era costruttore e mi spediva in giro per l’Italia per le aste degli appalti”.

Si presentava così, con queste parole, scritte nella sua casa-museo a Ro Ferrarese, Caterina Cavallini, “la madre che ha risposto ad ogni mia richiesta” – come la definisce suo figlio, Vittorio Sgarbi – lei che riuscì a rendere quel piccolo paese remoto sotto l’argine del Po, “il centro di un mondo aperto”, come ricorda l’atra figlia, Elisabetta - direttore generale ed editoriale de La Nave di Teseo e regista - “un rifugio per noi viandanti della famiglia e per tutti i viandanti che volevano gustare l’ebbrezza dell’arte”, da Giorgio Bassani a Valerio Zurlini, da Alberto Moravia a Umberto Eco. I due fratelli hanno voluto rendere omaggio alla “Rina” (così veniva chiamata da tutti), una donna grintosa ma avvolta da gaiezza, gentilezza e disponibilità dell’avventura, “simbolo di un’emancipazione vissuta, non discussa o sbandierata” (Claudio Magris). Hanno deciso di farlo con una mostra che ripercorre la storia di una passione: quella condivisa, principalmente, da un figlio e da una madre sveglia, determinata, con due lauree (in Farmacia e in Matematica) e uno spigliato senso per gli affari.

 

Insieme sono riusciti a creare in quarant’anni “La Collezione Cavallini Sgarbi”, che è poi il titolo scelto per la mostra allestita nel piano nobile del Castello Estense di Ferrara fino al 2 settembre prossimo. Da Niccolò Dell’Arca a Gaetano Previati, sono centotrenta le opere presenti raccolte all’insegna di un collezionismo appassionato, tra dipinti e sculture che vanno dall’inizio del Quattrocento alla metà del Novecento.

 

 San Domenico di Niccolò dell’Arca

 

“Collezionare quadri e sculture poteva essere più divertente che possedere il libro più raro”, spiega Vittorio Sgarbi, già collezionista di migliaia di titoli, trattati, guide e storie locali elencati da Julius von Schlosser nella sua Letteratura artistica. Dal 1984, però, incrociando il San Domenico di Niccolò dell’Arca, decise che non avrebbe “più acquistato ciò che era possibile trovare, ma soltanto ciò di cui non si conosceva l’esistenza, per sua natura introvabile”. La mostra inizia proprio con quel capolavoro del Rinascimento italiano in terracotta modellato nel 1474, all’origine collocato sopra la porta “della vestiaria” nel convento della chiesa di San Domenico a Bologna, “un’immagine potente e intensa”, precisa il critico d’arte e scrittore, “con un busto che rivela l’impareggiabile capacità del maestro pugliese di infondere la vita alle sue figure, così vere che paiono respirare”. Un po’ come l’Aquila, sempre in terracotta e sempre di dell’Arca, a cui seguono i capitelli con sibille eseguiti nel 1484 dallo scultore ticinese Domenico Gagini e le terrecotte di Matteo Civitali e Agostino de Fundulis. Poco distante, c’è una raccolta di preziosi dipinti di un periodo compreso tra la fine del XV e l'inizio del XVI secolo di autori nati o attivi a Ferrara (Giovanni Battista Benvenuti detto l'Ortolano, Nicolò Pisano, Benvenuto Tisi detto il Garofalo) ma anche di artisti meno noti, da Liberale da Verona a Jacopo da Valenza, da Antonio da Crevalcore a Nicola Filotesio detto Cola dell'Amatrice.

 

Curata da Pietro Di Natale e realizzata e promossa dalla Fondazione Elisabetta Sgarbi, la mostra esprime al meglio quella che Sgarbi stesso, nel voluminoso catalogo pubblicato da La nave di Teseo, definisce “l’euforia incosciente” della madre. “Lei vedeva e capiva le opere, ma ne godeva in relazione al mio godimento, e se per caso un’opera cercata o cacciata si perdeva, essa allora diventava meno importante. Doveva essere minimizzata per diminuire il mio dolore di averla perduta, fino a farsi irrimediabilmente brutta”. La caccia è stata “intensa, continua e senza stagioni”, ma la regola di non restare mai fermi, “perché non si può perdere l’occasione”.

 

Antonio da Crevalcore 

 

Dopo il 3 novembre 2015, giorno in cui nostra madre, Caterina Cavallini, ha intrapreso un viaggio diverso, c’era bisogno, forse, per tutti noi, di fermarci e dare una forma alla vita, perché avevamo meno vita dentro e intorno a noi”, precisa Elisabetta. “La Fondazione Cavallini Sgarbi, nata nel 2008 ma riconosciuta nei primi mesi del 2016, è la forma in cui si cristallizza la vita esondante e illimitata della Rina e in essa si cristallizzerà la nostra, almeno in parte”.

 

Il Rosario di Cagnaccio di San Pietro 

 

Di recente, sono entrate a far parte della collezione l'Imbarco della regina di Saba di Agostino Tassi e Il Rosario di Cagnaccio di San Pietro (Natalino Bentivoglio Scarpa). Firmato e datato tra il 1932 e il 1934, è un’opera che vede come protagonisti la moglie del pittore, le figlie e la suocera ritirate in una posizione di attesa sullo sfondo il mare. Con gli occhi gonfi e con il rosario in mano, pregano la restituzione di quell’uomo in un misto di attesa e sconforto. “Quelle opere – conclude la Sgarbi - sono le mura della nostra identità (se mai ne avessimo una), i ghiacciai della nostra memoria, i pilastri della nostra (supposta) saggezza”. Sono gli occhi con cui guardiamo le bellezze e le bruttezze della vita di fuori. 

 

Twitter: @GiFantasia