Filosofi confusi tra Marx e il cristianesimo
Secondo Eagleton la rivoluzione e la morte di Gesù hanno molto in comune
Milano. Cosa ci fa la croce sulla copertina del libro, rosso, di un professore di comprovata fede marxista? Terry Eagleton è uno studioso britannico di teoria letteraria, noto anche al pubblico italiano (ultimamente lo traduce Ponte alle Grazie) e talvolta fin troppo disinvolto nello spaziare dall’estetica all’ideologia, dalla religione all’attualità. Ora però che Yale University Press ha pubblicato il suo “Radical sacrifice”, l’ambizione a tenere insieme temi tanto difformi sotto il vessillo del marxismo si fa dichiarato e, verosimilmente, lo proietterà al centro del dibattito sui rapporti fra sinistra e chiesa, mai così chic come sotto Papa Francesco. La croce sulla copertina, brandita da un pugno inequivocabilmente rivoluzionario, è un lampante riferimento al sacrificio di Cristo, che Eagleton reputa spartiacque fra la concezione antica e quella moderna. Originariamente, il sacrificio era l’offerta sovente inadeguata a una divinità, nella speranza di placarne la volontà imperscrutabile; con la morte di Gesù, invece, diventa fulcro di un nuovo patto con Dio. Poiché il primo lettore del manoscritto di questo libro è stato il padre domenicano Timothy Radcliffe, c’è da presumere sia rimasto soddisfatto di quest’ammissione a opera di un ateo.
Giace alla base di questo tentativo un’interpretazione volutamente riduttiva del marxismo, visto come “teoria e pratica del cambiamento storico”, ma non come “visione dell’esistenza umana” nel suo complesso, che come tale “non ha niente di particolarmente significativo da dire su male, mortalità, sofferenza e perdono”. Non si può avanzare dunque un’interpretazione marxista del sacrificio; è esso piuttosto ad avere un elemento intrinsecamente politico, che si manifesta in due estremi. Da un lato, i totalitarismi si fondano sul sacrificio delle masse ovvero sull’alienazione totale dei loro diritti. Dall’altro, i martiri sono cristiani che si rifiutano di riconoscere l’autorità imperiale sacrificando agli dèi pagani e così offrono sé stessi a un Dio superiore; ciò non vale solo sotto Diocleziano, pensate a Thomas Becket, pensate ai cristiani d’Africa oggi. Per Eagleton la dottrina di Gesù è “assurdamente estremista” in quanto impone come perfetta sequela la sua imitazione nella scelta della morte e nella sostituzione sull’altare degli animali con sé stessi. E’ una “trasformazione rivoluzionaria”.
Siamo piuttosto lontani dalla dittatura del proletariato ma il modo in cui Eagleton intende il termine “rivoluzionario” è quello strettamente politico, non latamente filosofico. Poiché il sacrificio comporta “una saggezza che oltrepassa la razionalità del moderno”, compierlo significa porsi oltre l’impossibilità di osservare gli effetti del proprio martirio e, più in generale, scardinare la visione filistea che interpreta il mondo come computo da rigattiere, tante vendette per tanti torti, tot ricompense per tot benefici. Eagleton esagera nel ritenere che la rivoluzione sia il nome moderno dell’antico sacrificio – del resto ama l’affermazione forte e usa tutto l’armamentario della retorica sinistrese, sceglie il pronome femminile “she” quando deve parlare in termini impersonali, si lascia andare al ritrito paragone fra gli spasmi dei martiri e l’orgasmo, ripesca la teoria del potlach ovvero del ricambio ancestrale obbligato dal dono che andava di moda cent’anni fa, ai tempi di Marcel Mauss – ma il suo libro ha una cosa drastica da dirci su come la sinistra deve considerare l’orizzonte del trascendente.
Mentre ha fatto propria la battaglia liberal in favore di un indefinito ampliamento dei diritti, che troverà requie solo quando coincideranno in tutto coi nostri piaceri, la sinistra ha omesso di considerare che la morte è “uno dei pochi residui dell’assoluto in quest’età mondana”, ovvero il limite oggettivo e definitivo al perseguimento arbitrario dei nostri piaceri. L’autoconservazione è ciò che ci porta a scegliere di continuare a vivere perché è gradevole faro; se però incardiniamo i nostri diritti solo sull’ottenimento di ciò che desideriamo, l’obiettivo metafisico al quale puntiamo è il prolungamento indefinito della vita poiché la morte ci priverebbe di ciò che ci piace. Per Eagleton è un’ambizione erronea; piacere e diritti implicano l’individualismo, mentre la morte è l’orizzonte che ci lega alla comunità e che deve quindi spingerci a sacrificare anche la vita per essa – non nei termini dittatoriali delle divinità capricciose ma in quelli cristiani, che vedono nel superamento dell’individuo un cambio di paradigma sociale.
Marx vagheggiava “una classe della società civile che non è una classe della società civile perché è la dissoluzione di tutte le classi e ha un carattere universale in quanto le sue sofferenze sono universali”. Questa “perdita totale di umanità”, scrive nella “Introduzione alla critica della Filosofia del diritto di Hegel”, è un rinnovamento della concezione di sacrificio che può condurre alla “totale redenzione dell’umanità”, ossia al traguardo in cui “è inutile rivendicare alcun particolare diritto perché non viene inflitto nessun particolare torto”. Il cristianesimo l’aveva capito qualche secolo prima, ma bisogna portar pazienza.
Universalismo individualistico