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Mimì e Rodolfo all'Opera di Roma

Marina Valensise

Quella vita da bohème che Puccini conosceva bene. Un melodramma dalla musicalità spontanea e travolgente, che nasce però da una cura estrema dell'artificio e dal lavoro ossessivo con i librettisti

Certo, per creare La Bohème Giacomo Puccini e con lui i suoi due librettisti, Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, ai quali diede per due anni non poco filo da torcere, non avrebbe avuto bisogno di ispirarsi alle Scènes de la vie de bohème del francese Henri Murger, feuilleton ambientato ai tempi di Luigi Filippo, e uscito quarant’anni prima, con tanto di adattamento teatrale. Puccini cominciò a comporre La Bohème a trentacinque anni, nel 1893, quando era già l’astro nascente del melodramma italiano, successore designato di Verdi, acclamato in tutta Europa per la sua Manon Lescaut. Per ricreare l’esistenza di quei giovani artisti o aspiranti tali, in balia dei loro sogni di gloria, indifferenti al tempo e alle angherie del mondo reale, doveva solo guardarsi dentro, attingere ai propri ricordi, tornare con la memoria agli anni di gioventù, quando giovane studente al Conservatorio di Milano, esaurita la borsa di studio che sua mamma, vedova e piena di figli, aveva ottenuto niente po’ po’ di meno che dalla regina Margherita, finì per ritrovarsi in ristrettezze, sperimentando sulla propria pelle la vita grama del musicista pieno di ambizioni, gli allegri espedienti dettati dalla miseria, e il freddo, il freddo becco, il freddo cane come quello che assilla i giovani spiantati di Murger nella loro mansarda del Quartiere latino: e cioè Marcello, il pittore innamorato di Musetta, che dipinge un Mar Rosso alla maniera di Delacroix ma è tentato di farne legna da ardere; Rodolfo, il poeta che scribacchia da nègre su riviste e giornali, ma immola al fuoco il suo ultimo dramma, prima di incontrare Mimì, la vicina tisica e ricamatrice, cadendone folgorato d’amore; poi c’è Colline, filosofo sempre a corto di soldi che alla vigilia di Natale non riesce nemmeno a ottenere un prestito su pegno, e infine Schaunard, il musicista che invece se ne torna a casa con un cesto di leccornie e un po’ di soldi, e invita tutti a festeggiare al caffè Momus.

       

Cominciò a comporre “La Bohème” a 35 anni, quando era già acclamato in tutta Europa per la sua “Manon Lescaut” 

“La loro esistenza è un’opera di genio di ogni giorno, un problema quotidiano, che essi pervengono sempre a risolvere con l’aiuto di audaci matematiche…”, scrive Murger nella prefazione ripresa in exergo dai librettisti di Puccini. “Quando il bisogno ve li costringe, astinenti come anacoreti – ma se nelle loro mani cade un po’ di fortuna, eccoli cavalcare in groppa alle più fantasiose matterìe, amando le più belle donne e le più giovani, bevendo i vini migliori e i più vecchi e non trovando mai abbastanza aperte le finestre onde gettar quattrini; poi – l’ultimo scudo morto e sepolto – eccoli ancora desinare alla tavola rotonda del caso, ove la loro posata è sempre pronta: contrabbandieri di tutte le industrie che derivano dall’arte, a caccia da mattina a sera di quell’animale feroce che si chiama: scudo…”.

  

Un freddo cane assilla i giovani spiantati del francese Henri Murger nella loro mansarda del Quartiere latino 

A caccia dello stesso animale, il soldo, lo scudo, la lira, fu per anni anche il giovane Puccini, ultimo erede di una dinastia di musicisti, e però traviato dalla scoperta del melodramma di Verdi che lo distolse dai piani di carriera familiare come maestro di cappella nel duomo di Lucca. Infatti basta tuffarsi nel suo Epistolario, un’opera colossale, meritevole di entrare nelle case di tutti quegli italiani desiderosi di capire chi fossero e chi li rappresentasse nel mondo, quando l’Unità d’Italia era ancora suoi albori, pubblicata da Leo S. Olschki (il primo volume, 1877-1896, pp. XXVI-688, 70 euro, è uscito nel 2015 a cura di Gabriella Biagi Ravenni e Dieter Schickling), basta rileggere la stupenda lettera del 6 dicembre 1882 al ricco zio notaio in Lucca, Nicolao Cerù, per riscoprire l’estro con cui il ventiquattrenne Puccini batte cassa, con cognizione di causa, e ritrovare tutti gli ingredienti, anzi il perfetto concentrato autobiografico di quella che diventerà una delle sue opere universalmente note e più famose, La Bohème, appunto: “I miei studi vanno bene e lavoro assai”, scrive Puccini allo zio notaio. “Il freddo quassù è straordinario ed è maggiore degli anni scorsi: sono perciò a pregarla di una favore che spero troverà giusto. Debbo studiare e come sa io studio specialmente di sera tardi fino a notte inoltrata e avendo una camera fredda fredda mi abbisognerebbe un po’ di fuoco. Io non ho denari perché, come sa, quelli che lei mi manda sono per il puro necessario, perciò avrei bisogno di qualche cosa per comprarmi una di quelle stufe economiche da brace che fanno assai caldo. La spesa per la stufa non è grande, ma quel che mi dà a pensare è il carbone che costa tanto e in capo al mese monta qualche soldo. Ho scritto queste cose anche alla mamma e così vedano se mi possono rimediare qualcosa fra tutti e due, perché il tempo stringe e si va più nel freddo. Gli anni passati ho fatto quasi senza fuoco, cioè il primo anno assolutamente senza perché fu inverno temperatissimo, e il secondo ci avevo il caminetto e qualche volta l’accendevo, però anche nel secondo anno non era quel freddo che è [ora] che siamo al principio dell’inverno”.

  

Nell’“Epistolario” il concentrato autobiografico dell’opera. La richiesta di soldi di Puccini studente al ricco zio notaio a Lucca 

Si capisce allora come mai Fedele D’Amico scrivesse nel 1966 che “La Bohème di Puccini è un’operazione idealizzante della memoria. Egli dové nutrirla della nostalgia per la sua propria bohème, quella vissuta da studente a Milano”. Il celebre musicologo forniva coma prova il fatto che il tema d’apertura della Bohème, ripetuto di continuo in tutta l’opera, era tratto da quel Capriccio sinfonico che Puccini aveva composto come saggio finale del Conservatorio. Ma soprattutto, leggendo l’Epistolario di Puccini, si capisce come mai il regista Àlex Ollé, direttore del collettivo catalano La Fura dels Baus, abbia immaginato un allestimento fuori dal tempo e dallo spazio ora che Bohème torna al Teatro dell’Opera di Roma in una coproduzione con il Teatro Regio di Torino – con undici recite dal 13 al 24 giugno e tre cast internazionali (Anita Hartig, Vittoria Yeo, Louise Kwong per Mimì; Giorgio Berrugi, Ivan Ayon-Rivas per Rodolfo; Olga Kulchynska Valentina Nafornita per Musetta, Massimo Cavalletti e Alessandro Luongo per Marcello), diretta dall’ungherese Henrik Nánási al suo debutto ro   mano (e poi da Pietro Rizzi che il 22, 23 e 24 prenderà il suo posto sul podio). Perciò al Teatro Costanzi, niente Parigi all’epoca dell’orleanismo, né Milano all’indomani dell’Unità. Niente crinoline, niente pastrani e redingote. E vedremo la resa ideata da Lluc Castells per la cuffietta rosa e il manicotto, con cui Mimì morente si scalda le gelide manine. Niente cieli bigi del Quartiere latino, ma una non meglio identificata periferia urbana molto dark, che potrebbe essere Roma, Parigi, Pechino, Buenos Aires, e un loft semiabbandonato, dove quattro giovanotti vivono da temerari la loro giovinezza piena di energia, fumando spinelli, amoreggiando con sartine e ricamatrici (anzi forse redattrici, magari blogger o mannequin) piene di sogni e di illusioni, facendo baldoria e gozzovigliando felici, finché d’improvviso non si trovano di fronte la morte di Mimì, non per tisi ma di tumore, che segnerà la fine della giovinezza e di ogni illusione.

  

La cosa straordinaria è che un’opera come La Bohème, che da oltre un secolo continua a parlare al cuore del contemporaneo, e in questa versione aggiornata riuscirà, come è già successo per l’allestimento di Damiano Michieletto al Comunale di Bologna, a conquistare persino i giovani più refrattari, pur mettendo in scena la spontaneità sentimentale, il vitalismo, il senso nihilista dell’effimero fine a se stesso, è tutt’altro che un frutto spontaneo. Nasce al contrario dalla cura estrema dell’arte e dell’artificio, da un’attenzione meticolosa su ogni verso, su ogni parola e ogni battuta e persino sul metro di ogni parola e di ogni singola battuta, grazie a un’ossessione spasmodica per il libretto, alla ricerca implacabile di un perfetto equilibrio tra il dramma e il melodramma, l’ironia e la tragedia, i movimenti lenti e le improvvise accelerazioni della musica, come ricorda il maestro Nánási. E perciò urge leggere il primo volume dell’Epistolario di Puccini per scoprire la trama più segreta della fabbricazione di quest’opera con l’incessante tessitura alla quale il Maestro sovrintese per anni, dando il tormento ai librettisti, con la complicità del suo editore e amico Giulio Ricordi.

 

Il tema d’apertura della “Bohème” era tratto dal “Capriccio sinfonico” composto come saggio finale del Conservatorio 

Il romanzo della Bohème si apre con un viaggio in Sicilia. A fine giugno 1894, Puccini parte per Catania. Vuole studiare il progetto che accarezza da anni di musicare una novella di Giovanni Verga, La Lupa, che ha per tema la passione incestuosa di una contadina per il marito della figlia, molto più giovane di lei, il quale, esasperato, finirà per ammazzarla con un’ascia. Godendo della “splendida e lussureggiante vegetazione”, e inebriandosi “di folate di vento africane”, Puccini ha anche il modo di incontrare lo scrittore siciliano, che gli aveva subito preparato un libretto, e in cerca del folclore e del pittoresco fa insieme a lui un sopralluogo all’interno, sulle pendici dell’Etna, di cui resterà traccia in un reportage fotografico che gli ricorderà “il mollame di quei giorni simpatici”. Ma con Verga la scintilla non si accende. Così’, tornato a Torre del Lago, Puccini temporeggia. D’altra parte, Blandine von Bülow, la figliastra di Wagner, moglie del conte Gravina e nipote di Liszt (in quanto figlia di Cosima e di Hans von Bülow) l’aveva dissuaso da un soggetto tanto cupo e torrido come quello verghiano. Così, in preda a mille dubbi, Puccini decide di abbandonare il progetto adducendo due ragioni, i troppi dialoghi del libretto e “i caratteri antipatici, senza una sola figura luminosa, simpatica, che campeggi”. Aveva fatto pure un tentativo di cambiarli. “Speravo che Verga mi mettesse più in luce e considerazione il personaggio di Mara, ma è stato impossibile dato l’impianto del dramma”, scrive a Ricordi il 13 luglio 1894. A quel punto riprende in mano il lavoro interrotto, “buttandomi a Bohème a corpo morto” e chiede al suo editore di intercedere con Illica, sia per il Quartiere latino, che diventerà il secondo quadro, sia per sfrondare quello che diventerà il terzo, la Barriera d’Enfer. Puccini ha le idee chiare. E’ un toscano verace che ama l’ellissi, la sintesi, la rapidità. Preferisce semplificare la trama, fino a scarnificarla, puntando sugli episodi chiave, anche a costo di presentare, come poi farà, solo dei quadri, anziché un racconto compiuto: “Tutte quelle cianfrusaglie ed episodi che non hanno niente a che fare col dramma, mi danno noia. Bisognerebbe trovare un quadro diverso e più efficace, sia drammatico o comico. Leggendo le opere di Murger, l’Illica può trovare materiale prezioso. Io lavoro dunque seriamente e bisogna che Illica o chi per esso mi conduca a fine e bene questo libretto”.

 

Ricordi gli risponde cinque giorni dopo, rattristato per i mesi perduti e preoccupato dall’insoddisfazione del “Doge”, come lui chiama Puccini. Lo stesso giorno, Puccini informa Illica che gran parte del primo atto è finito, e scrive a Carlo Clausetti del negozio Ricordi una lettera deliziosa in cui riassume in due righe tutta la sua estetica, commentando la “sparata enorme e impossibile” di D’Annunzio, il quale aveva chiesto per un libretto l’esorbitante cifra di 40.000 lire, somma pari a quanto gli rendeva un romanzo. “Bisogna rimanere nei limiti del reale! Bisogna cercare di cogliere il D’Annunzio in un momento diverso. Dio voglia che tu ci riesca!” scrive Puccini non si sa se per scherzo o sul serio all’amico Clausetti. “E’ l’idea mia da anni e anni possedere qualcosa di soavemente originale dal primo ingegno d’Italia. Tu spiegagli il mio genere. Poesia, poesia, affettuosità spasimanti, carne, dramma rovente sorprendente quasi razzo finale. T’ho rotto le bale [sic]? Non la pigliare a male. vale tuo GPuccini”.

 

Attraverso le lettere si scopre la trama segreta della fabbricazione dell’opera. Dalla prima intenzione di musicare una novella di Verga 

Intanto, per Bohème deve contentarsi di Illica, che se l’era pure presa a male per i cambianti richiesti e minaccia di gettare la spugna. “Ora che ritorno a Lui, si diverte a darsi delle arie – e se poi dice che l’ho messo da parte la colpa di chi è ? Bastava che il lavoro fosse quale deve essere e cioè logico, stringato, interessante ed equilibrato, ma per ora niente di tutto questo”, scrive Puccini fuori dai gangheri, il 21 luglio 1894, al “Signor Giulio”. Di piegarsi al suo librettista, non se ne parla proprio. “Io devo a occhi chiusi accettare il vangelo d’Illica? Clisteri non mi se ne piantano, sono abbastanza provato per ricaderci– Ora Bohème la vedo ma col quartiere latino come dissi l’ultima volta che conferii con Illica = colla scena di Musetta che trovai io (sottolineato tre volte nde) e la morte la voglio come l’ho ideata io e son sicuro allora di fare un lavoro originale e vitale – In quanto alla barriera son sempre del mio parere che mi piace poco – Trovo un atto dove di musicale c’è poco: solo la commedia corre ma non è assai. Avrei desiderato qualche elemento melodrammatico… non bisogna dimenticare che della commedia ne abbiamo tanta negli altri atti – In quello lì, desideravo un canovaccio che mi facesse spaziare un po’ più liricamente… – Basta il sig. Illica si calmi e si lavorerà. Ma voglio anch’io dir la mia all’occorrenza e non farmi salir sulle spalle da nessuno…”.

 

Un incontro a Milano nello studio di Ricordi risolve il contenzioso, ma gli ostacoli continuano. Illica si rimette al lavoro, Puccini, tornato a casa, si dà alla sua attività preferita, cacciare le folaghe e andare all’osteria con gli amici goliardici del Club della Bohème, e lo blandisce: “Per Musetta farò pastoralmente come mi dici… io ho fiducia sicura in te e credo che questo libretto verrà un capolavoro di umorismo e commozione – la definizione tua dell’amore aggiuntami nella prima scena è stupenda e nuova – l’amore è un caminetto che sciupa troppo, etc. avanti così”.

  

“Poesia, affettuosità spasimanti, dramma rovente sorprendente quasi razzo finale. T’ho rotto le bale? Non la pigliare a male” 

E però, inizia subito a fare pressione perché i librettisti adattino i loro versi anche sul piano ritmico alle sue idee musicali. Per Puccini, come per Mozart, il testo deve essere il figlio ubbidiente della musica. E non c’è ragione che sia il contrario. Così, il 7 settembre scrive al Signor Giulio chiedendogli di vagliare, sfrondare e tagliare soprattutto il quadro della Barriera e il quartetto finale: “Adesso attendo le accorciature e la revisione di Giacosa (che ci vuole assolutamente anche per l’unità del lavoro e poi sotto forma più pensata il libretto acquista etc. etc.). Ora il lavoro originale c’è! E come! L’ultimo atto è bellissimo. Il quartiere anche ma difficilissimo – ho fatto togliere quel saltimbanco (un giocoliere che intratteneva i passanti, nde) bisognerà sfrondare dell’altro – Sarebbe bene che anche lei desse una letta – per purgarlo di certe bizzarrie di cui non ce n’è proprio bisogno – Per es.: Il cavallo è il re degli animali = i fiumi son vini fatti d’acqua, e molte altre alle quali Illica tiene come ai propri figli (se ne avesse)…”.

 

Puccini è un toscano che ama l’ellissi, la sintesi, la rapidità. Preferisce semplificare la trama, fino a scarnificarla 

Figlio di vari padri, il libretto della Bohème sarà un parto laborioso avvenuto con più di una levatrice nel corso di quasi due anni. Illica era un improvvisatore, che abbozzava le scene puntando molto sul pittoresco. Mentre Giacosa, “il Budda giacosiano” come scriveva Puccini, era un tipo tranquillo, abituato a districarsi fra i meandri di Murger. Puccini però era incontentabile e terribilmente esigente. “Ho ricevuto il nuovo copione – ma come debbo fare a musicare certi versi e certe tiritere che andrebbero ristrette e magari rifatte perché l’idea è buona, ma la forma è un po’ molto tirata via?” si lamenta il 25 settembre con Ricordi, raccomandandogli di insistere con Giacosa perché faccia quattro o cinque versi al giorno, e gli spedisca due o tre pagine del Quartiere latino. Senza versi, infatti, niente musica. “Io ho bisogno della parola adatta ai tipi e alla situazione – facendo poi come mi si indica mi sembra che sarebbe doppia fatica fare dopo le correzioni sul metro musicato e stabilito”. Giacosa però si rifiuta di continuare le correzioni. Intanto in ottobre Ricordi è a Parigi, per la prima dell’Otello di Verdi, con Illica che manda una foto di Murger a Puccini, il quale ringrazia e insiste però per altri tagli nel duetto finale del primo atto, tra Mimì e Rodolfo, “Son tutti tempi appassionati più o meno e musicalmente sono lenti e mi generano stanchezze e colori uniformi”. “Se virgolo e se con ciò tralascio di musicare i brani virgolati il senso sfugge (come tu dici): allora come faccio a musicare delle parole senza senso?”.

 

In una lettera riassume in due righe tutta la sua estetica, commentando la “sparata enorme e impossibile” di D’Annunzio

Passa l’inverno, in primavera il clima sembra rasserenarsi, se ai primi di aprile Puccini manda a Giacosa una graziosa missiva in versi “Ti rammento l’atto quarto / perché io presto me ne parto / cerca, trova, taglia inverti, ché tu re sei fra gli esperti / ti ricordi di ridurre / le scenette in cima all’atto / quando tutto sarà fatto / gran sospiro emetterem. / Ma la morte di Mimì / solo tu puoi preparar / poi con quattro do re mi / lancerem la barca in mar”. L’estate esplode e Illica è atteso a Pescia, nella villa del Castellaccio, nuovo acquisto di Puccini, con 40 stanze, bosco, torrente e giardino. Ma anche qui sono dolori. “Siccome faccio canticchiare Musette nell’intero ho bisogno di alcuni versi per il coro che gavazza all’osteria. Musette canta sulle parole del secondo atto, il corretto deve essere su questo metro: quinari tronchi. Quattro versi per es: Noi non dormiam, sempre beviam, facciam l’amore, sgonfiam trattore”. In agosto Puccini continua a lavorare alla partitura, ma già pensa ai primi allestimenti e al cast. La sua Bohème ha vinto sul tempo quella del rivale Ruggero Leoncavallo, anche se passeranno ancora mesi per completare l’orchestrazione e imporre col libretto già in stampa gli ultimi tagli, sacrificando l’assolo di Schaunard col suo Credo sull’infedeltà femminile (perché, come spiega a Illica il 12 settembre 1895, “Le frasi, le idee più scottanti verso il bel sesso mi pareva che avessero convenuto di più ai due traditi Rod[olfo] e Mar[cello] e aggiungevo se fosse stato Colline il creditore sarebbe andato bene dicesse quanto tu facevi dire al non del tutto astemio Schaunard”) e abolendo completamente il quartetto del brindisi finale: “tutta roba inutile, e musicando ho visto che è meglio andar dritti allo scopo e cioè alla Tod von Mimi”, insiste il compositore scherzando con l’Isolde di Wagner. Alla fine, dopo revisioni estenuanti e febbrili, grande nervosismo per il cast e un massacrante lavoro di prova, la prima della Bohème il 1° febbraio 1896 al Teatro Regio di Torino sarà un trionfo. A dirigere non c’è l’adorato Leopoldo Mugnone, ma il ventottenne maestro concertatore del Regio Arturo Toscanini, un violoncellista parmigiano che ha fatto fortuna in sud America, “L’orchestra e Toscanini! straordinari”, scrive Puccini il 23 gennaio da Torino alla compagna Elvira Bonturi. Due mesi dopo, lui stesso annuncerà al conte Ginori “Grande trionfo al San Carlo di Napoli”, e da lì a seguire per cent’anni in tutto l’universo mondo.