La Kolyma, terra di gulag dove è impossibile riuscire a sentirsi umani
Un libro racconta un viaggio nella Russia estrema, ricca di una storia che non ha lasciato monumenti ma solo ferite
Roma. La Kolyma è quel luogo in cui l’uomo è una renna che non sa correre, non è importante in quanto uomo, ma solo per la sua funzione. E’ cibo per gli orsi e gli orsi lo conoscono così. Per gli oligarchi – uomini ma di altra specie – è un camionista, è un bracciante, è un cercatore d’oro, non è un essere umano, è una professione. La regione della Russia estrema è una terra ricca di una storia che non ha lasciato monumenti, ma solo ferite. A descrivere cosa resta oggi di questo luogo è il giornalista polacco Jacek Hugo-Bader nel libro “I diari della Kolyma”, edito da Keller. Il reporter del quotidiano Gazeta wyborcza, avventatamente definito l’erede di Ryszard Kapuscinski, ha percorso i duemila chilometri dell’autostrada che attraversa la Kolyma. Un viaggio caotico, freddo, lungo il quale tutto appare sommerso, tranne la disperazione. La Kolyma è un corpo ghiacciato che ha paura di sciogliersi, le sue debolezze sono la sporcizia sotto la neve, le strade dissestate, i ruderi ormai incomprensibili dei gulag. Di per sé questa regione è già stata protagonista letteraria, a cantarla, o meglio a urlarla, fu Varlam Shalamov, che la dipinse come una prigione di morti e di speranze appese. Lo scrittore era stato in un campo di concentramento sovietico, aveva patito il freddo, la fame e l’insensatezza della sua condanna, tre anni ai lavori forzati per aver diffuso del materiale contro Stalin. Nella Kolyma di Shalamov, e poi anche di Solzhenicyn, si perdono le dita per il freddo e la fiducia negli esseri umani. Si cercano la vodka, il pane e l’oro. Così è rimasta la Kolyma anche nei racconti di Bader, come se il tempo non fosse mai andato avanti, come se in quella parte della Russia estrema sopravvivesse solo un periodo che si ripete in eterno, impietoso e lancinante, la Kolyma si è fermata all’Unione sovietica.
Bader incontra personaggi e fantasmi. Natalia Nikolaevna, figlia di Nikolai Ezov, terribile commissario del popolo e capo dell’Nkvd che firmava le condanne a morte sul tavolo da biliardo. Tra i tanti, mandò a morire anche lo scrittore Isaak Babel’, colpevole di aver sedotto sua moglie. Natalia, amante del cioccolato e orfana dell’Urss, è tornata nella Kolyma per scelta, su una nave che portava il nome di suo padre. E’ sola, racconta di non non essere mai stata sposata. Quando sei la figlia di un dittatore che ha ucciso quanto poteva uccidere in una regione senza vita, non è facile farsi amare e così, un po’ per cercare compagnia, un po’ per sentirsi viva, Natalia ha iniziato a suonare la fisarmonica. Ma la Kolyma è fredda e lei è vecchia e le sue mani non riescono più a muoversi, così la figlia del terribile Ezov attende. Tutti i personaggi incontrati lungo la strada si erano separati per un periodo da quella regione gelida, poi sono tornati. Hanno sentito un richiamo, dal profondo delle loro vite ridotte a brandelli, hanno scelto di riprendere la strada verso l’angolo della Russia che fosse il più lontano possibile. Chi era riuscito a fuggire per cercare una carriera nella parte europea della nazione, ha ceduto, è stato riacchiappato dai fantasmi ed è tornato. Tutti gli abitanti della Kolyma, a loro modo, sono sopravvissuti, ai gulag, ai tedeschi, alla vodka, ai matrimoni violenti, e hanno scelto di immergersi in una vita senza tempo, disperata, perché la Kolyma, anche negli anni Duemila, è il luogo più desolato della Russia. Non ci sono più campi di concentramento, ma il dolore dei prigionieri di un tempo continua sentirsi. Come scriveva Shalamov, ogni istante in questa regione è amaro.
La strada che Bader percorre si chiama Doroga, strada in russo, e sotto l’asfalto nasconde oro e cadaveri. I cadaveri sono di chi ha cercato di costruirla, lottando contro il gelo, la neve e le belve. L’oro appartiene agli oligarchi. Lungo i duemila chilometri di sofferenza, Bader sembra assumere le sembianze dei personaggi che racconta: si fa corrompere da un ricco oligarca, beve vodka nel retro di un camion, diventa parte del bestiario disperato della Kolyma. Nello scorrere delle pagine, a volte inquieto, a volte analitico, il giornalista polacco mette il lettore di fronte a un caleidoscopio caricaturale di uomini. Chirghisi, ciuvasci, baschiri, russi, armeni, ceceni, jakuti. Sciamani, minatori, camionisti, oligarchi, commercianti, maghi, ciarlatani. Tutti nella Kolyma soffrono, bevono, hanno amato e attendono la morte. I bambini non ci sono, esistono solo nei racconti dei personaggi, che sono stati bambini e che a loro volta hanno avuto figli, ma sono lontani, sono morti, o sono scappati.
Ma la Kolyma è un pianeta, un posto remoto della terra dove tutto è iperbole. I fiumi sono animaleschi e irrequieti, la terra trasuda ora, l’oro si cerca d’estate quando fa più caldo, ma la terra è talmente dura che estrarlo è difficilissimo. Le montagne sono brutali, enormi, irte, anche loro piene di solitudine umana e crudeltà naturale. Gli animali non vogliono convivere con l’uomo, il cibo scarseggia anche per loro e l’uomo è pur sempre cibo. Nella Kolyma si sovrappongono la vita, la natura e la storia, tre dimensioni che cercano l’una di soffocare l’altra per prevalere.
Alla fine dei diari, Bader incontra una sciamana. Ride, scherza sembra portare il giornalista fuori dalla disperazione della regione. Come gli altri personaggi racconta volentieri del suo passato, mangia con allegria, beve tè. E’ un personaggio solare, l’unico, perché in tutta la Kolyma solo lei, Ediij Dora, può vedere la morte. La grande presenza della Siberia estrema che uccide la vita, la natura e infine fa dimenticare la storia.