A sud di Carmelo Bene
Torna alla Mostra del cinema di Pesaro “Nostra Signora dei Turchi”, nel ’68 un film anti Sessantotto
Sono io il cinema di me stesso. E’ sempre lui. E’ come un’ala di giovinezza che incendia i vegliardi. Come Frate Asino. Come San Giuseppe da Copertino che si faceva ali caricandosi della propria natura maldestra, a bocca aperta, pregando, volando, lui resta lui. E pare di sentirlo – echeggiare dal sé assente – ed è Carmelo Bene che disdice il nulla filmico.
Dirà: “Quando parlo di cineasti penso a Borges, penso a Joyce, a Gounod; cineasta è un termine che non comprendo”. E poi, ancora: “Tanto riusciremo tutti a fare i nostri film prima o poi; sapete com’è, e i film sputtaneranno quello che abbiamo scritto e viceversa”.
Sono passati cinquant’anni dall’apparizione Nostra Signora dei Turchi, il film che Carmelo Bene – gigante della poiesis, postumo su tutto – piazza tra le natiche verbose del Sessantotto.
Uno spasso, il Carmelo, alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia nell’anno di grazia 1968. Pier Paolo Pasolini, Gillo Pontecorvo e Citto Maselli lo reclamano per averlo nella comitiva: tutti alla testa degli operai di Marghera per
Dirà: “Quando parlo di cineasti penso a Borges, penso a Joyce, a Gounod; cineasta è un termine che non comprendo”
sciamare e occupare il Festival. Ci sono gli studenti: “Gli studenti rivoluzionari sono diventati dogmatici, hanno preso il posto dei professori”. E lui, allora – sempre al Sud del Sud dei Santi – fa marameo ai compagni e col suo lungometraggio risponde loro con la dissoluzione dell’Ego, con l’invisibile restituito al visibile, con la Mezzaluna che nel 1486, il 14 agosto, porta l’assedio a Otranto per poi mietere in un campo di grano ottocento e tredici eroi della fede, uno dei quali è lui stesso, sfortunato martire redivivo o, forse, mancante.
Il suo red carpet è il velluto rosso nella cripta della Cattedrale di Otranto. Genio è chi fa quello che vuole e se ne procura i mezzi.
E si fa trovare, Bene, dove nessuno s’immagina sia. “Essi cosa vogliono?”, sfotte, “sostituire a questa fantomatica realtà che è lo statuto fascista un fantasma reale; e io vivo nel terrore di questo fantasma reale, dei Maselli, dei Gregoretti, degli Argentieri, dei Casiraghi; gli eredi Togliatti, i nipoti di Nenni…”. Lello Bersani lo applaude, Carlo Mazzarella, un altro storico inviato Rai, lo stronca. E a quest’ultimo – altri tempi, altri ardori – s’avvicina un’attrice di Nostra Signora. Sentendosi non laudare ella, benignamente chiede a Carmelo, “Che faccio, lo schiaffeggio?”, e il maestro, comprensivo, acconsente: “E perché no?”.
Ed eccolo, dunque: “Essendosi librato a mo’ degli angeli, ne seguì una caduta rovinosa che gli valse la frattura di una gamba. Si trascinò carponi verso l’armadio dei medicinali, ne trasse una garza che imbevve nel whisky e se ne fasciò dal piede destro alla coscia. Si distese sul letto tra due lenzuola, assumendo un tono estremo, rauco e compromettente dicendo: ‘Ci sono cretini che hanno visto la Madonna e ci sono cretini che non hanno visto la Madonna’ ”.
Eccolo: a differenza degli altri martiri, oltre alle budella, ai tendini e al cuore nella grata, conserva gli occhi, “così che gli altri lo vedevano in un’urna, mentre lui li vedeva in un’altra urna”. Ed eccolo ancora, il Nostra Signora.
Il film torna oggi alla 54esima Mostra internazionale del Nuovo Cinema, a Pesaro (fino al 23 giugno), attraverso le rushes rinvenute tra i materiali della Microstampa conservati presso la Cineteca Nazionale. Ci sono undici ore e mezzo di girato. Un groviglio di pellicola in sfacciato contrappasso. Non è opera che meriti di essere deturpata da chiavi di lettura, il film, figurarsi se può comminarsi ermeneutica sul girato.
Carmelo Bene confeziona la pellicola da destinare alla sala col metodo tutto suo. Taglia durante il montaggio, sfregia e cancella. Aveva già tagliato durante le riprese. Prepara la scena e magari, prima del ciak, dice all’operatore: “Ecco, qui c’è un
Come un benedicente muezzin, dall’azzurro della terrazza di casa sua, Carmelo saluta i contadini in transito tra Maglie e Lecce
valzerino”. La sua post-produzione è già in fieri. Degrada le immagini a beneficio del sonoro. Tutto, con l’aiuto di Mario Masini, è smontaggio. Non vuole neppure saperne di tutti questi metri, lui è il cinema, non fa niente che corrisponda al canone. Lui è canone a se stesso e però il lavoro di recupero – grazie al lavoro di Fulvio Baglivi – quasi replica, sfigurandola in parodia, la sontuosa ricostruzione di Hermann Diels e Walther Kranz del FragmentederVorsokratiker tanto Nostra Signora è una divertita parodia della vita interiore, il corpus mutante e sempre paradossale di identità demenziale. Lo scriveva lui stesso – ancora prima del film, due anni prima – nel romanzo omonimo: “E’ l’estasi questa paradossale identità demenziale che svuota l’orante del suo soggetto e in cambio lo illude nella oggettivazione di sé, dentro un altro oggetto”.
Le immagini in bianco e nero – controtipo (negativo ricavato da positivo) stampato per le lavorazioni, sottratte ai colori caleidoscopici della pellicola Ektachrome – sono mute. Ed è il sé di Bene per sempre assente.
Ecco il suo ricordo: “Avevamo la pellicola misurata, perché s’era lì col pretesto di filmare tre cortometraggi; si girava quindi in 16 mm, ingrandito poi miracolosamente a 35 mm; ci si arrangiava con scarti di pellicola, e con gli scarti s’addizionavano immagini ammantate di nulla, in nome del mio metodo che aggiunge per sottrarre”.
Senza più phoné, immerso nella sospensione di filimenti, più che filmati, pur in questo magma afono di estenuanti allucinazioni il Carmelo Bene che s’avvale delle ovazioni di giapponesi, francesi e russi che lo volevano premiato a Venezia, a dispetto dei sessantotti in marcia, c’è in forza di tutta la sua potenza distruttiva.
Non c’è trama nel film, ma neppure in queste rushes grigie e impossibili dove pure il sottaciuto travolge il dis-detto.
Al paradosso dell’attore si sovrappone il paradosso del montatore: “Non è il disgusto che deve prevalere ma il gusto del disgusto”.
E’ il catastrofico in ogni sua messa in opera, Carmelo Bene.
Tutto ciò che deriva come prosecuzione del suo romanzo, e dello spettacolo teatrale – e così del film, totalmente disomogenei tra loro i tre titoli omonimi – è un continuo ricominciare da capo. Undici ore di girato, tutte mute, davvero sono l’immemore discorso del dire. Forse solo una filastrocca per bambini, con l’occhio della macchina da presa mutato in un caleidoscopio che nel mostrare, fa udire ben altro.
La sonorità delle immagini, specie in questo ammasso di volatilità delle rushes è un effetto ottico della phoné. E’ il cantare l’ascolto nell’interiore del sé, è l’apparire della voce “quando io”, scriverà in Sono apparso alla Madonna, “incominciai a rendere vano l’udire”.
“Con gli scarti s’addizionavano immagini ammantate di nulla, in nome del mio metodo che aggiunge per sottrarre” (Bene)
Urge un certo stato di delirio, a vederlo, a berlo perfino – tanto è alcolico il suo mettere mano ai mezzi, con qualunque mezzo – con lui che sta davanti e dietro la macchina da presa indifferentemente.
Dirà: “Da tutte e due le parti contemporaneamente; appaio praticamente in ogni inquadratura, ma se non avessi recitato credo che sarei stato comunque davanti alla macchina da presa”. Il delirio, appunto: “Ogni cosa è stata concertata, soprattutto il delirio; almeno l’intenzione del delirio; quanto al delirio – ma questo dopo – fu un vero delirio”.
Lo dirà a Jean Narboni nei giorni di Venezia, quando per nessun motivo vorrà interloquire con critici e giornalisti della conventicola italiana. Dirà: “Culturalmente non sono italiano, ma arabo”. Lo specificatamente italiano è il melodramma, non la letteratura: “Gli italiani”, dirà ancora a margine di Nostra Signora, “disprezzano il melodramma, eppure quella è la loro unica tradizione; vivono immersi in una cattiva coscienza intellettuale, culturale… Cantano e non pensano”.
Carmelo Bene è, per usare una metafora di Franco Branciaroli, un “incamminato”. La sua è la cerca del martirio.
La colata di uova marce sullo schermo del cinema di Bari durante la proiezione del suo film di esordio proclama, nella violenta reazione del pubblico in sala (accoltellarono perfino le poltrone) il preciso intento di Bene: il fatto che tutta quella brava gente non c’azzeccava un’acca del film solleticava in lui la lena di far deflagrare in loro l’euforia dell’inutilità dell’arte.
Le visioni di undici ore e mezzo di girato, oggi, producono un effetto “sudario” in memoria di quel che continua a essere Nostra Signora, sempre difficile da ingurgitare a meno di corroborare la contemplazione dell’invisibile con i seminari di Lacan, l’imaginale di Henri Corbin e, qualora fosse possibile, la visita di Casa Bene a Santa Cesarea Terme. E’ il palazzo moresco della famiglia Bene dove Carmelo fece le riprese del film e da dove, ancora oggi, il visitatore può misurare il salto dal balcone.
Altro non è che un volo mancato, il buttarsi di sotto.
Fin tanto che vi abitava Maria Luisa Bene, la sorella di Carmelo, in quella casa, il tutto che avvampa, il mare di Salento che vi si riversa, e poi quel cielo – lanciato a corpo morto sull’eventualità di un altro assedio – avevano i crismi dell’inumano, oggi il tutto che si dispiega è villeggiatura, neppure goldoniana meraviglia, ma comunque un dolce vanire d’amnesia. Si arriva a Santa Cesarea e davvero vien da dire “non c’è Bene, grazie”.
Proprio, sì: l’eterno dell’Estate.
Il Sud del Sud dei Santi convoca il corpo bandistico musicale, dilaga nella piazza, s’invera nella processione, inghiotte ogni rappresentazione, se ne interessa e fabbrica mezzo mondo, se gli garba, dissacrando così l’imbellettata regola delle civiltà emancipate grazie alle ideuzze “informative”.
Sono i Santi a farsi carico di tutte le allegorie, non hanno cura del dibattito a metà tra Nouvelle Vague e New American Cinema, e se ne discendono dal cielo per accudire lo sfortunato martire costretto a vivacchiare nell’intenzionalità dell’Ego che altro non vede che se stessa, la stessa intenzionalità e mai un possibile morirsene dell’Io .
Solo i Santi, come Santa Margherita pronta a diventare una quasi moglie per il martire dalla tragedie appena sfumate, solo i Santi sanno andare per eccesso restando sempre alla prima battuta, al primo verso, al primo di ogni prima.
Prepara la scena e magari, prima del ciak, dice all’operatore: “Ecco, qui c’è un valzerino”. Degrada le immagini a beneficio del sonoro
Cantano, intanto, e non pensano, i tutti. Non così i turchi alle porte. Gli inturbantati mietono teste tra le spighe e il film filma se stesso: “Mi provai a eccedere l’immagine pur di dissipare il malinteso della mia preavventura teatrale”. E’ il cinema: “Gioco del soggetto che gioca perverso con l’immagine, come si fa col più futile dei balocchi”. E’ l’orecchio mancante: “Invece del racconto, questo bricolage di suoni e immagini destinato a una citazione di racconto, questa miriade di segni alla deriva dell’onda sonora che detta il movimento”.
Che film, il cinema di se stesso.
Lydia Mancinelli al volante dell’automobile bianca, paradisiaca. Ha un’aureola in testa. Guida come si può guidare in santità al Sud, pericolosamente, minacciando la sicurezza stradale dei camionisti costretti a fermare bruscamente e ritornare indietro per verificare se fosse effettivamente un vedere la Madonna o un’allucinazione.
Carmelo come un benedicente muezzin, dall’azzurro della terrazza di casa sua, saluta i contadini in transito tra Maglie e Lecce. Questi si tolgono la coppola, s’inchinano, lui s’appalesa quale santo tra i Santi del Sud del Sud dei santi e porge ai suoi paesani innumerevoli occasioni di stress, e di mistici tumulti, giusto a salutare il ‘68 con un film dichiaratamente anti ‘68: “Dovevo far accedere le plebi che pretendevano di baciare i lembi della veste della Santa Madre, incuranti che fumasse in posa discinta e leggesse Annabella”.
Dirà, Carmelo Bene, anzi, scriverà – lo annoterà nella sua autografia Sono apparso alla Madonna – “dichiaratamente anti ‘68 in dispregio non solo a quel maggio italo-gallo, ma a tutti i maggi socialmondani della Storia in saecula saeculorum”.
Amen.