Claude Lanzmann (foto LaPresse)

Tenere gli occhi fissi, nove ore e una vita, sulla Shoah. L'unica cosa da fare

Maurizio Crippa

Vita e testimonianza di Claude Lanzmann, 1925-2018

Non avere mai smesso di interrogarsi e di documentare, di esercitare – con una sobrietà esemplare – il suo ruolo di intellettuale pubblico, di guardiano ostinato della verità storica, di difensore senza incertezze della memoria della Shoah e della attualità di Israele lo aveva condotto, a 88 anni, nel 2013, a riprendere il discorso. O a ribaltarlo forse, di certo a riguardare un pezzo del suo lavoro con occhi diversi. La lunga intervista che sostanzia L’ultimo degli ingiusti era stata filmata del 1975 a Roma per il progetto di Shoah. Ma dieci anni dopo, quando finalmente il gigantesco film documentario fu pronto, quell’intervista non c’era. Perché era l’intervista al rabbino di Vienna Benjamin Murmelstein, l’unico fra i decani dei ghetti d’Europa sopravvissuto alla Shoah. L’ebreo che sopravvisse al campo a Theresienstadt – la “città ideale” della propaganda nazista, dove invece morirono di stenti 33 mila ebrei – e fu poi processato per collaborazionismo e bandito dalla comunità ebraica. Per Claude Lanzmann fare i conti, allora, con l’ebreo “ingiusto” che era sceso a patti con il Male assoluto e si era salvato non era stato possibile. Ma la pratica era soltanto accantonata. Venticinque anni dopo, Lanzmann riprese quel vecchio materiale, lo montò con altro. Ne uscì una testimonianza, o un punto interrogativo, o un punto sospeso sopra l’abisso, se possibile più sconvolgente dell’opus magnum cui il regista-storico-intervistatore aveva dedicato gran parte della vita.

 

  

Claude Lanzmann era nato a Parigi, figlio di genitori ebrei provenienti dall’est Europa, nel 1925. Era al liceo quando partecipò alla Resistenza, diventò amico e compagno d’avventura intellettuale e impegno politico di Sartre, a lungo diresse la Les Temps Modernes, la rivista fondata dal filosofo. Ha scritto e parlato e firmato appelli per molte cause, in primis sempre quella di Israele. Ma soprattutto ha dedicato una lunga parte della sua vita al suo grande progetto, Shoah, che non lo abbandonò mai più, come dimostra il “sequel” – se la parola non suonasse così stupida – di L’ultimo degli ingiusti.

  

Per portare a compimento un progetto così monumentale – quasi dieci ore di film, materiali raccolti in quattordici paesi durante undici anni di lavorazione – ci vuole non soltanto del metodo e un’idea forte. Un grande rigore intellettuale sì, ma non basta neppure quello. Ci vuole un enorme rigore stilistico, quasi ascetico, perché per undici anni di lavoro e nove ore di schermo il punto di vista – e lo sguardo sulla storia gli uomini e le cose – non deve cedere, non deve cambiare. Deve essere capace di mostrare a tutti ciò che si è visto. Parlare di estetica, o di stile, a proposito di Shoah non ha ovviamente senso: ma è una questione di etica. Le nove e più ore di Shoah sono lunga documentazione, lunga scoperta di luoghi, di dettagli. E soprattutto sono l’infinito sfilare dei volti, delle parole, delle testimonianze dei sopravvissuti, tutti quelli che Lanzmann era riuscito a trovare. Ma anche i testimoni e i colpevoli. Mostrati con gli inciampi, le parole che si fermano e ricominciano, le lacrime che interrompono. Cioè con tutte le cose che il montaggio taglierebbe, persino in un documentario, persino in un film verità. Ma che Lanzmann ha voluto lasciare, perché il suo scopo non era commuovere, o narrare, o ricostruire e nemmeno, al fondo, giudicare.

   

“Darò a tutti un nome che non sarà dimenticato”, dice Isaia. Dare questa testimonianza, darla per sempre, era lo scopo, lo sguardo tenuto fisso undici anni. Perché la Shoah (firmò un appello, nel 2009, contro l’insensata proposta di uno sciagurato ministro francese di abolire la parola nelle scuole, e sostituirla con una più “comprensiva”) non ha bisogno che si pongano domande. Ma di essere detta. Perché è il Male assoluto. La sincerità, l’integrità, l’incorruttibilità di questa domanda è il lascito poderoso di Lanzmann. Assieme al dubbio angosciante, che forse lo ha assalito e assale noi, di quella vecchia intervista ripresa, molti anni dopo. E’ morto a Parigi ieri, a 92 anni.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"