I desideri? Si sta come di notte i soldati aspettando la morte (o forse no)
Il latinista e una fake-etimologia di Recalcati & Galimberti
Che cosa c’entra il desiderio con le stelle? La domanda può sembrare incomprensibile a chi non sappia un poco di quell’inutile latino che qualcuno in Italia si attarda ancora a difendere come lingua formativa, il cui studio “apre la mente” nonostante le sue complicate strutture e la sua antica ostinazione a concedere poco o nulla all’immediatezza e alla facilità.
C’entra molto, eccome. Perché nell’etimologia latina della parola compaiono due radici: il prefisso “de”, che suggerisce movimento dall’alto verso il basso, allontanamento, distacco; e il sostantivo “sidus, sideris” che significa appunto “astro, stella”.
Fin qui, ci siamo: ma il senso “profondo” della parola? Secondo alcuni, il prefisso avrebbe valore intensivo e il verbo “desiderare” significherebbe originariamente: “Fissare attentamente le stelle” forse in attesa di un segno, forse perché lo spettacolo stesso di un cielo stellato attrae lo sguardo e dunque: guardare qualcosa di bello che non si possiede. Non male.
Ma gli antichi, si sa, dal cielo traevano auguri e presagi. E se al prefisso “de” diamo il senso dell’allontanamento, allora la musica cambia e il desiderare latino finisce per essere inteso come l’atto di chi distoglie lo sguardo dalle stelle perché l’augurio tanto atteso non arriva, o perché un cielo coperto di nubi non permette di scorgere alcunché. Pessimista, ma assai più consono all’anima romana, che poco indulge ai sentimentalismi. Di qui deriverebbe il valore di desiderare come sentire la mancanza di qualcosa che non c’è, ma sarebbe bene che ci fosse. Come “eros” in greco, che, secondo la celebre definizione platonica, è “il desiderio di un bene assente”.
Fin qui, potremmo accontentarci. Ma poi succede che un bel giorno un professore di latino legge con stupore una nuova definizione di “desiderio”. E la trova nel brillantissimo libretto di uno psicanalista italiano che va per la maggiore: Massimo Recalcati. Il quale, in una conferenza alla Comunità di Bose data poi alle stampe col titolo, emblematico, La forza del desiderio (Ed. Qiqaion), scrive testualmente: “L’etimologia di questa parola viene da Giulio Cesare, il quale nel De Bello Gallico dice che “desiderio” viene da desiderantes. Chi sono i desiderantes? Sono soldati sopravvissuti al campo di battaglia: sotto un cielo stellato attendono i propri compagni ancora impegnati nella battaglia, a rischio di morte. Questa è l’immagine che Giulio Cesare ci dà dell’origine del desiderio. Una strana e potente immagine: una notte, un cielo stellato, soldati che depongono le armi e che attendono i propri compagni ancora impegnati nella battaglia, a rischio di morte”. Dunque, secondo Recalcati, la dimensione del desiderio ha profondamente a che fare con l’attesa, la veglia, la notte nella quale ognuno può smarrirsi. Bellissimo.
Il professore sobbalza. Come mai questa cosa in tanti anni d’insegnamento non è mai venuta fuori? E dire che in tutto questo tempo aveva finito per convincersi che la lettura di Cesare fosse cosa noiosa e stucchevole, ma questo, pensa lui, forse è dipeso da mancanza di nuovi stimoli e di aggiornamento.
E così, cerca tra le note del testo dello psicanalista, come si dovrebbe in ogni libro, la citazione esatta, ma la citazione non c’è. Strano, riflette il professore… Ma immediatamente dopo pensa: beh, questa è la trascrizione di una conferenza, non saranno andati tanto per il sottile. E poi Recalcati è uno che sa quello che dice. Dunque, motore di ricerca alla mano, il docente va a consultare tutte le occorrenze dei termini desideriume desidero nel De Bello Gallico. Ma non trova né desiderantes né notti stellate, né deposizioni di armi. Scrive per pignoleria alla casa editrice che gli risponde sollecitamente di non sapere da dove questa citazione sia stata presa.
Ma ormai quel tram chiamato desiderio è partito e il professore non demorde: cerca desiderantese desideriumsu internet e scopre che la seducente etimologia non è frutto della ricerca personale del professor Recalcati, ma proviene – di seconda mano – da un altro grande maître à penser della nostra Italia povera di maestri: Umberto Galimberti. Tutto congiura a far pensare che il filosofo abbia coniato questa definizione in una conferenza – anche lui – tenuta al Festival della filosofia di Modena nel 2003. E che Recalcati l’abbia tratta da lì, senza verificarla. Ipse dixit, e tanto basta.
E così, attonito e deluso dalle stelle della cultura italiana, il professore è costretto a distoglierne lo sguardo: già sognava, il suo desiderio, di proporre questo testo ai suoi studenti e farli riflettere sulla grandezza della lingua latina e dei suoi autori, e sul fatto che questa lingua ancora ha molto da dire al giorno d’oggi.
Ma s’è dovuto arrendere. Le notti stellate di Giulio Cesare sono una delle tante fake news di cui è disseminato il cielo di carta e bit della comunicazione. Quando ancora si usava l’italiano, qualcuno l’avrebbe chiamata bufala. O ancora, e meglio, perché gl’illustri intellettuali che abbiamo chiamato in causa ci perdonino, una splendida paretimologia, cioè un’etimologia falsa, benché affascinante, di quelle cui si dedicava un grande intellettuale dell’epoca di Cesare, Marco Terenzio Varrone, che per spiegare l’origine della parola lucus(bosco) diceva quiaminimelucet (“perché non vi è luce”) e per illustrare il termine bellum (guerra) commentava quod res bella non sit, perché non è una cosa bella. Etimi, che, come ognun vede, lasciano a desiderare.