Quelle frasi da evitare durante le interviste
Resta da capire perché la sciocchezza sia diventata il motto degli scrittori ispirati. Esempi
Frasi che gli scrittori non dovrebbero mai pronunciare durante le interviste, pena il distacco immediato dell’ascolto (se non mettiamo in pausa il registratore è perché un residuo di decenza professionale lo impedisce). Guai a chi dice: “I personaggi hanno cominciato a vivere di vita propria”. Maddai, come può saltare in mente un pensiero simile? Proprio a chi si trova nella posizione giusta per sapere come stanno le cose. I personaggi non vivono di vita propria, tocca allo scrittore il divino mestiere di renderli interessanti e inventare per loro qualcosa da fare. Sul punto, siamo di stretta osservanza nabokoviana: “Se voglio che un personaggio attraversi la strada, lui la attraversa”. Punto e capo: è lo scrittore che comanda (per doppio salto mortale, Vladimir Nabokov ha scritto “Lolita” senza bisogno di trascinare una dodicenne da un motel all’altro della provincia americana). Resta da capire perché la sciocchezza sia diventata il motto degli scrittori ispirati, scuola “va’ dove ti portano i personaggi”.
Guai a chi dice: “Questo romanzo mi è cresciuto dentro, anno dopo anno”. L’immagine è orrenda, l’idea peggio ancora: un romanzo non è mica un blob in espansione, o una valanga che rotola. Un romanzo sono parole messe le une accanto alle altre, con puntiglio e caparbietà. Se Anthony Burgess che ha scritto “Un’arancia a orologeria” – “Arancia meccanica” è il film diretto da Stanley Kubrick, odiato dallo scrittore più di quanto Stephen King abbia mai odiato “Shining” – evocava la “dura lotta per costringere le parole a comportarsi bene”, non c’è motivo perché a voi le parole si sottomettano a uno schioccar di dita.
Guai a chi dice: “Lo sento molto mio”. I romanzieri possono passare le giornate a letto, tra lenzuola mandate a lavare sempre nella stessa lavanderia, accuditi dalla stessa governante, afflitti da attacchi d’asma. E poi scrivere di salotti mondani, di intellettuali, di gelosia. Il resto è autofiction, genere che assieme al giallo – pardon, “noir” fa più chic – è molto praticato nel paese dei mille campanili. Guai anche a chi dice “i romanzi di genere raccontano la società”. Ci siamo divertiti per anni con i magnifici polizieschi losangelini a mollo nel whiskey, davvero vogliamo annoiarci con l’ambientazione sotto casa, se non di quartiere? E con il detective separato che vive una vita triste e solitaria aprendo la scatoletta di tonno sulla tovaglia di plastica, ignaro che là fuori stanno litigando sui diritti di chi consegna cibo a domicilio?
Guai a chi aggiunge come aggravante, dopo la frase “Lo sento molto mio”: “E’ per me un punto d’arrivo”. Il ricordo va a una magnifica vignetta di Giuseppe Novello, disegnatore satirico (l’illustratore e il pittore son fuori dalle nostre competenze). Potevano essere gli anni 40, facendo una media tra i 30 e i 50 delle raccolte “Cosa dirà la gente”?” o “Resti tra noi”. Vediamo un giovanotto che matura e invecchia, mentre tronfio commenta i libri appena pubblicati: “Credo di avere trovato una mia voce”, “Lo considero il libro della maturità”, “Qui mi sono compiutamente espresso”. Chiusa, magnifica e crudele. Due passanti guardano la statua eretta dal comune in suo onore, e lo impallinano: “E’ noto per una raccolta giovanile di novelle, il suo capolavoro”.
Parliamo naturalmente di scrittori italiani. Gli scrittori stranieri magari ti gelano come Richard Ford, che alla domanda “Come riesce a inventare personaggi che dopo poche pagine risultano più familiari della gente che conosciamo?” rispose “It’s my job” – è il mio mestiere, senza scomodare l’arte. Non ci fu verso di schiodarlo da lì (per uscire con onore tentammo una teoria, non del tutto corroborata dai fatti: più gli scrittori sono bravi, meno parlano del loro lavoro). Gli stranieri quando fai una domanda rispondono alla domanda. Vivaddio, senza dire mai “vorrei fare una premessa” (frase che nelle interviste segna l’inizio delle ostilità). Degli scrittori in posa per la fotografia, a piedi nudi sul divano, parliamo un’altra volta.