Julien Benda

La cavalcata degli intellettuali pronti a lisciare il pelo alle nuove élite

Michele Magno

Nulla di nuovo: Julien Benda aveva già scritto tutto 91 anni fa

Poco prima della sua morte, Eric Hobsbawm osservava con una punta di nostalgia che l’epoca in cui “gli intellettuali erano il principale volto pubblico dell’opposizione politica appartiene ormai al passato.[…] In una società dominata dall’incessante intrattenimento di massa, gli attivisti alla ricerca di utili sostenitori di buone cause preferiscono rivolgersi a celebri attori o a musicisti rock anziché agli intellettuali […]. Viviamo in una nuova éra, almeno finché il rumore universale dell’autoespressione tramite Facebook e gli ideali egualitari di Internet non avranno avuto il loro pieno effetto sulla scena pubblica” ( Gli intellettuali: ruolo, funzione e paradosso , in La fine della cultura. Saggio su un secolo in crisi di identit à , Rizzoli, 2013).

 

Lo storico britannico del “secolo breve” descriveva così il declino di una delle figure centrali del Novecento, fosse al servizio del potere, organico a un partito, un cane sciolto. Ma l’intellettuale è sempre stata una bestia strana. Qual è infatti il suo mestiere? Luciano Bianciardi, insofferente a ogni establishment culturale, dopo essersi posto questa domanda nelle sue “Sei lezioni per diventare un intellettuale, dedicate in particolare ai giovani privi di talento” (uscite nel 1967 sulla rivista ABC), concluse che si trattava di un mestiere indefinibile. Per l’autore della Vita agra il vero intellettuale, in fondo, è -o dovrebbe essere- schiavo di tutti e servo di nessuno. Ma che anche l’intellettuale rimpianto da Hobsbawm sia una razza in estinzione nel tempo dei social network, travolta dal corso della storia e dalle nuove forme della politica, lo abbiamo visto in campagna elettorale. Certo, non sono mancati gli appelli al voto, le candidature esterne e di bandiera, i proclami nei talk-show e sulla carta stampata , ma è apparso chiaro che gli intellettuali (termine ambiguo come pochi altri) avevano poco o nulla da dire. Del resto, perché sbilanciarsi più di tanto prima di conoscere il risultato delle urne? Soltanto quando i vincitori si sono imposti con la dura forza dei numeri, abbiamo assistito a salti sul loro carro degni di un acrobata da circo equestre.

 

Sono trascorsi novantuno anni dalla pubblicazione del pamphlet di Julien Benda, Il tradimento dei chierici, in cui il filosofo francese denunciava l’asservimento dell’intellettuale agli interessi dei ceti dominanti o, meglio, delle loro rappresentanze politiche. Egli difendeva la sua l’immagine come custode dei valori di verità e giustizia, alieno da ogni coinvolgimento di parte che possa distrarlo dai suoi compiti di educazione razionale. A tal proposito, ricorda i grandi nomi del passato che sono rimasti estranei alle passioni politiche, diversamente da coloro (Theodor Mommsen, Maurice Barrès, Charles Maurras, Gabriele D’Annunzio, Rudyard Kipling) che le avevano invece impugnate con la “sete del risultato immediato”. E’ in particolare la passione patriottica quella con cui Benda polemizza più aspramente, e ne attribuisce la primogenitura agli intellettuali tedeschi a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. Ma “l’umiliazione dell’universale” è avvenuta anche a vantaggio della classe, di cui sono responsabili in buona misura le Réflexions sur la violence di Georges Sorel (1906), un insegnamento all’odio che ritrova parallelamente nel fascismo italiano e nel bolscevismo russo. Solo in alcune circostanze, qui il riferimento all’affaire Dreyfus è esplicito, agli intellettuali è permesso di entrare nell’arena politica senza venire meno alla loro funzione. In generale, però, il modo corretto di agire per il “chierico” nel mondo moderno è quello di protestare verbalmente e di bere la cicuta quando lo stato lo ordina. Ogni altra azione è tradimento.

 

Proprio Il secolo dei tradimenti si intitola un libro di Marcello Flores, in cui viene magistralmente ricostruito il dibattito suscitato dalle tesi di Benda (il Mulino, 2017). A contestarle è un giovane romanziere comunista che, nel 1931, aveva pubblicato un testo che lo renderà famoso, Aden Arabie, cui segue l’anno successivo Les chiens de garde, la sua risposta a La Trahison des clercs. Quella di Nizan è in qualche modo la prima coerente formulazione di una teoria dell’impegno degli intellettuali. Per il ventisettenne scrittore di Tours, rifarsi agli eterni valori di verità e giustizia senza parlare di colonialismo, guerra, industrializzazione, disoccupazione, amore, morte e politica, cioè di tutti i problemi che assillano la maggioranza degli abitanti del pianeta, era solo un tentativo di oscurare le miserie della realtà contemporanea. Occorreva schierarsi: con gli oppressi o contro. Rovesciando il discorso di Benda, per lui i “cani da guardia” sono gli intellettuali che si rifiutano di sporcarsi le mani e difendono i privilegi e la ricchezza della borghesia.

 

Attorno alla metà degli anni Trenta il tema dell’impegno degli intellettuali è al centro di una serie di appuntamenti di rilievo internazionale. Nel settembre 1934 si svolge il primo congresso degli scrittori sovietici, cui partecipano -tra gli altri- i francesi André Malraux e Louis Aragon insieme allo stesso Nizan, lo spagnolo Rafael Alberti, l’americano Mike Gould, anche se le relazioni principali vengono tenute da due dei massimi dirigenti del Pcus, Nikolaj Bucharin e Andrej Zdanov, uno sulla via di un drammatico tramonto e l’altro in inarrestabile ascesa. E’ però il congresso che si apre a Parigi il 21 giugno 1935, dedicato alla “difesa della cultura” di fronte all’avanzata del nazifascismo in Europa, a divenire il simbolo stesso di quell’engagement che sarà il mantra di Jean Paul Sartre. Mancano i simpatizzanti per il trockismo e personalità di orientamento conservatore,come François Mauriac e Henry de Montherlant. L’insieme dei presenti, tuttavia, costituisce un’assemblea di prestigio. E’ Gide, convertitosi da poco al comunismo e destinato ad abbandonarlo clamorosamente qualche anno dopo, a inaugurare le assise. Benda, che diventerà più tardi un intransigente difensore della fase più tragica dello stalinismo, contrappone come inconciliabile il comunismo alla civiltà occidentale.Nizan lo contesta duramente. SoloRobert Musil chiede di potersi “sottrarre alle pretese” della politica, invitando i colleghi a imparare la “nobile arte femminile del non concedersi”. Il drammaturgo austriaco, autore di una delle pietre miliari della letteratura, L’uomo senza qualità, invita inoltre alla libertà, intendendo con essa un’idea psicologica, l’audacia, l’irrequietezza dello spirito, il piacere della ricerca, la schiettezza e il senso di responsabilità, perché “nessuna cultura può fondarsi su un rapporto obliquo con la verità”. Laquestione della verità viene ripresa con coraggio leonino (in quel contesto) da Gaetano Salvemini, allora professore a Harvard. È lui a sollevare il “caso Serge”, creando nella platea un forte imbarazzo. Al termine del suo intervento, suscitando scandalo e riprovazione, l’illustre antifascista italiano afferma: “Non mi sentirei in diritto di protestare contro la Gestapo e l’Ovra fascista se mi sforzassi di dimenticare che esiste una polizia politica sovietica. In Germania vi sono campi di concentramento, in Italia vi sono isole adibite a luoghi di pena, e nella Russia sovietica vi è la Siberia […] – è in Russia che Victor Serge [seguace di Lev Trockij, accusato di attività antisovietiche] è prigioniero […] – si può capire la necessità dell’attuale stato totalitario russo a condizione che ci si auguri la sua evoluzione verso forme più libere, ma bisogna dirlo e non si può celebrarlo come l’ideale della libertà umana”.

 

Allora il mito dell’Urss era un buon escamotage per preservare la propria fede rivoluzionaria, anche a costo di occultare la realtà: quella di una grandiosa utopia di emancipazione del lavoro che si stava tramutando nel suo più asfissiante e burocratico apparato coercitivo. L’intellettualità che aveva fatto proprio il vocabolario del marxismo-leninismo ebbe un nuovo periodo di gloria tra la fine del Secondo conflitto mondiale e il crollo dell’impero sovietico, ossia durante le imponenti mobilitazioni per il disarmo nucleare e contro l’invasione del Vietnam. Dopo, la fiducia nell’inarrestabile marcia del progresso ha ceduto il passo alla paura di una inevitabile catastrofe ambientale, letta come il frutto perverso di una globalizzazione sregolata. Malgrado ciò, non si può dire che da noi gli intellettuali, di qualunque tendenza siano, si mostrino molto preoccupati per il futuro dell’umanità. Poco male. In fondo, basterebbe che non si lasciassero indurre in tentazione lisciando il pelo alle nuove élite al potere, antico vizietto italico prepotentemente riaffacciatosi sulla ribalta nazionale.

Di più su questi argomenti: