In ricordo di Cesare De Michelis
Con quelli come lui Venezia è sempre salva, e salda, e l’Italia con lui era un paese in tutto migliore
Gran dottore, bibliofilo, editore, veneziano e di ceppo protestante valdese come il fratello Gianni, socialista, disilluso, amabile amico, Cesare De Michelis era un tipo speciale di italiano, direi laterale. Chi si occupa di cultura, abbraccia la vita pubblica o l’accademia, esercita di norma il suo talento mettendosi al centro della scena, spesso con effetti fantasmagorici e qualche volta grotteschi. Cesare De Michelis non è mai stato uno spettatore anonimo né un suggeritore piazzato nella sua buca o dietro le quinte, ma evitava riflettori troppo accesi, lasciava all’incandescente fratello Gianni, con il quale condivideva una prepotente intelligenza, l’effimera eppur vera gloria della lotta politica aperta e intensamente militante, e da intellettuale di grande pregio e amministratore e imprenditore, ferocemente legato alla Laguna, evitava sistematicamente di travalicare il confine del lavoro ben fatto, di quel gioiello della casa Marsilio da cesellare per sessant’anni con amore e grinta.
Era un conversatore fervente, capace di ira e di pacificazione, e un compagno ideale di convivialità e di lavoro, ma non amava la chiacchiera gesticolante. Aveva il dono misterioso e raro, almeno in un paese di passioni cattoliche e mediterranee come questo, del ritegno. All’atto della fondazione del Foglio, a giornale mezzo ideato e non ancora uscito, oltre vent’anni fa, ci disse della sua curiosità per ogni inizio, e il nostro in particolare, e fu prodigo di consigli, incline a una qualche forma di partecipazione. Era un momento complicato, per lui alla testa di un’impresa di nicchia, allora, ambiziosa e destinata a lanciare un’intera letteratura, un pezzo d’Europa, il thriller scandinavo, e scrittori, scrittrici, di gusto e risonanza eccellenti, e per noi che eravamo bastardi solitari in una mischia di politica e ideologia che poteva durare tre mesi e fra poco farà il suo quarto di secolo. Non se ne fece alcunché, eppure Cesare si considerò e fu sempre un compagno di viaggio, un discreto suggeritore di cose belle, non di bellurie.
Era a suo modo una pietra di Venezia, altro che bellurie. Non mollava il suo mondo, che è notoriamente una imago mundi dalla luce soffusa e riflettente, per nessuna ragione. Un anno fa era stanco, dopo una cena all’Harry’s Bar, ma vivissimo e ostinato si aggirava per le calli con la sua compagna Manuela e senza darsi arie libertine, casanoviane, si mostrava in tutta la sua tempra elegante di gentiluomo veneziano. Lo amava, e non era rimasto prigioniero del riformismo socialista. Nella sua compostezza pareva un navigatore, un gran mercante di idee, un signore degli scambi. Questa è poi la sua eredità, oltre allo stile e ai libri, e al suo figlio delfino di una storia familiare che forse comincia con il progenitore dei progenitori, il tipografo Aldo Manuzio, al quale Cesare De Michelis aveva dedicato saggi e interpretazioni piene di giudizio e di preziosi dettagli. Con quelli come lui Venezia è sempre salva, e salda, e l’Italia con lui era un paese in tutto migliore.