Prima la patria
Leggere il libro di Righetto per capire in che senso il paese non può essere regalato ai nuovi sovranisti
Ci vuole anche una buona dose di coraggio, di questi tempi, a pensare e poi pubblicare una trilogia “della patria”. Il concetto è delicato e il rischio di essere inseriti d’ufficio tra le folle plaudenti di patrioti contemporanei (sovranisti, populisti, nazionalisti) è più che mai elevato. Matteo Righetto alza ancora di più la posta e alla parola “patria” antepone l’aggettivo “ultima”, così che anche il lettore più disattento, solo prendendo in mano il volume, sia indotto a pensare che si tratti dell’ennesimo saggio colmo di pessimismo sul destino dell’Italia. Il lettore disattento dovrà metterci più impegno, magari sfogliando il libro e immergendosi in un mondo “altro”, vecchio di più d’un secolo. “L’ultima patria” (Mondadori) viene dopo “L’anima della frontiera”, è il secondo capitolo di una trilogia ben radicata tra le montagne del nord-est italiano, tra l’altopiano di Asiago e la Val Brenta. Malattie, povertà, emigrazione. Religione e sentimenti, mistero e guaritori rispettati. Gli ingredienti sono da romanzone buono sia per i pomeriggi sotto l’ombrellone sia per le serate invernali davanti al caminetto. Nulla di nuovo, ma come poi sempre accade è la miscela degli elementi a rendere gustoso il piatto. E’ un mondo dove i confini politici tracciati sulle mappe sono labili, il Brennero non rischia la chiusura a ogni ondata di migranti sbarcati a Lampedusa e i crocifissi non vengono branditi come bandierine da usare per delimitare oasi protette. Non è però l’Eden: l’eco è quella del disincanto per una realtà che si sta sgretolando, portandosi nel burrone secoli di tradizioni e modi di vivere. Il vecchio impero sta per morire e le avvisaglie sono recepite perfino sulle Alpi o poco sotto, tra gli italiani sudditi di Franz Joseph. Di lì a pochi anni, vecchi amici saranno chiamati ad ammazzarsi per ideali alti e per molti incomprensibili (la patria è il primo di questi ideali).
Mario Rigoni Stern, cantore di guerra e di montagne pure lui di Asiago, lo racconterà bene nell’“Ultima partita a carte”, il suo ultimo libro he vale tanto quanto i suoi altri capolavori. Gli anni sono diversi rispetto alla narrazione di Righetto, ma il filo conduttore è il medesimo: uomini che portavano il proprio bestiame a pascolare al di qua o al di là del confine, condividendo l’immutabile quotidianità alpina, ora devono odiarsi se vogliono comportarsi da buoni cittadini, da patrioti. Il confine è l’elemento centrale anche nel secondo capitolo della trilogia di Righetto. La traccia migliore per leggerlo è riprendere la massima di Augusto, il padre di Jole, che appare nell’Anima della frontiera: “Le vere frontiere sono quelle tra prepotenti e poveri cristi, tra chi si sollazza di cibo e potere e chi invece patisce la fame e deve spaccarsi la schiena per un pugno di polenta”. C’è un qualche richiamo a Cormac McCarthy, se non altro nella terminologia scelta, la mitica frontiera che torna e che come una placca tettonica si sposta continuamente, ora impercettibilmente ora con forza più impetuosa, devastando tutto ciò che le poggia sopra. Ma Righetto richiama subito Rigoni Stern: saranno le ambientazioni, le storie di uomini semplici, i momenti epici che di tanto in tanto scandiscono l’incedere della narrazione. La scrittura, ed è un fatto che qui s’apprezza parecchio, è essenziale – McCarthy insegna –, non v’è ricerca del fronzolo che pare essere diventato un dovere quasi morale di tanti scrittori, che cercando di indagare l’animo umano per pagine e pagine riescono solo a costruire interi paragrafi di aggettivi presi dal vocabolario psicologico o, quando va male, sentimentale. Righetto bada all’essenziale, anche quando si tratta di descrivere i luoghi, opera buona per chi voglia capire dove si stia svolgendo la trama, tra dirupi e costoni di montagne: “Un’ora più tardi arrivò al pianoro, posto a poco più di mille metri di altitudine sul versante sudoccidentale del Grappa. Si trattava di una radura abbastanza estesa, dalla quale si potevano scorgere, a ovest, oltre il grande salto della val Brenta, molti pascoli dell’altopiano e soprattutto la piana di Marcesina”.