Viktor Oliva, Il bevitore di assenzio

Diari alcolici

Michele Magno

Piaga e assassinio, ma anche dono degli dèi. Dall’antica Grecia al proibizionismo e oltre: in un libro l’epopea dell’ubriachezza

Nella Fattoria di George Orwell gli animali si ribellano perché il signor Jones, il fattore, era un ubriacone. Nel finale, sbirciando dalla finestra vedono i maiali che bevono birra: in quell’istante si rendono conto che i suini sono diventati umani. E’ la stessa metamorfosi raccontata nell’Epopea di Gilgameš quattromila anni fa. Enkidu era un selvaggio che abitava nei boschi. Quando la sacerdotessa di Išrar gli offrì della birra, le belve capirono che si era civilizzato. In qualsiasi luogo o epoca gli esseri umani abbiano vissuto, si sono sempre riuniti per bere. In un libro colto e divertente, Mark Forsyth ci spiega perché (Breve storia dell’ubriachezza, il Saggiatore, 292 pp., 17 euro). Beviamo per sconfiggere la solitudine della sobrietà. Beviamo per passare da uno stato emotivo a un altro. Beviamo per suggellare il termine della giornata di lavoro o, come fanno membri della tribù etiope dei suri, per fissare il suo inizio. Beviamo ai battesimi, ai matrimoni, ai compleanni e ai funerali. E, ogni volta, bere significa che il vecchio ordine delle cose è sparito e che un ordine nuovo, magari un po’ barcollante, è in arrivo.

 

Ogni volta, bere significa che il vecchio ordine delle cose è sparito e che un ordine nuovo, magari un po’ barcollante, è in arrivo

Una tenda, con dentro due barili su cui era poggiata una tavola che fungeva da bancone: il primo saloon a essere chiamato con questo nome

Si beve, beninteso, anche per evasione. Ogni società è un edificio di regole e, indipendentemente da quanto siano ragionevoli e giuste, di tanto in tanto abbiamo bisogno di infrangerle. Ciò forse rende l’umanità inaffidabile, ma anche magnifica. Secondo il filosofo americano William James,“la sobrietà sminuisce, distingue e dice no; l’ubriachezza espande, unisce e dice sì”. Certo, l’ubriachezza è una montagna di contraddizioni perché dice sì a tutto. A volte è istigatrice di violenze e a volte di pace. Ci fa cantare e ci fa dormire. E’ stata la fortuna dei potenti e la loro rovina. E’ conforto degli umili e segnale di disperazione. Per i governi, è scintilla di rivolte e fonte di guadagno. E’ un’affermazione di virilità ed è privazione della virilità. E’ uno strumento di seduzione e un’allegra matrona. L’ubriachezza è piaga e assassinio, ma anche un dono degli dèi. Ecco perché è sempre esistita.

 

Le sue tracce si perdono nella notte dei tempi. Il primo alcolico di cui abbiamo assoluta certezza fu rinvenuto in Cina a Jiahu, e risale a circa settemila anni prima della venuta di Cristo. Nella Bibbia, Noè semina un vigneto e l’Antico Testamento è sorprendentemente permissivo nei confronti dell’ubriachezza. Lo stesso rito centrale del primo cristianesimo ruotava attorno al bere comunitario. Gesù beve vino e nell’Ultima cena ordina ai suoi discepoli di bere. Un sorso che cambierà la storia del mondo. Nella “Lista reale sumerica”, un elenco di sovrani semileggendari della Mesopotamia, c’è solo una regina: Kubaba, l’ostessa che ha governato la città di Kish per quasi un secolo (siamo nel terzo millennio a.C.). L’ipotesi che le donne fossero proprietarie delle taverne è quindi plausibile, visto che la preparazione della birra era un’attività tipicamente domestica. Nell’antico Egitto vigeva un’uguaglianza di genere incredibilmente moderna nel campo delle sbornie. Nella Festa dell’ebbrezza, dedicata alla dea Hator, folle di facoltosi aristocratici celebravano la fertilità del Nilo ballando, sbronzandosi di birra e fornicando. I greci, invece, non bevevano birra, ma vino. Gli spartani costringevano gli schiavi a ubriacarsi di fronte ai bambini, per stroncarne i cattivi pensieri. Gli ateniesi, meno sadici, preferivano filosofeggiare sulla suprema virtù dell’autocontrollo. Il Simposio di Platone inizia così: “[…] fecero le libagioni, cantarono l’inno in onore di Dioniso e terminati gli altri cerimoniali passarono al bere; ma a questo punto intervenne Pausania, che disse: ‘Via, amici, non potremmo trovare il modo di bere senza foga? Io, per conto mio, mi sento completamente sfinito dalle bevute di ieri, e avrei bisogno di un po’ di respiro’ […]”. Platone sapeva che al vino non piacciono i capi e che l’ubriachezza è incline alla democrazia. Per un suo contemporaneo, il drammaturgo Eubolo, nei simposi bastavano tre crateri o coppe di vino: uno per la salute, il secondo per l’amore e il terzo per il sonno. Dopo – aggiungeva – i saggi fanno ritorno a casa.

 

Il simposio greco era basato sull’incontro tra uomini pari. C’era un simposiarca, ma fungeva solo un cerimoniere. Il convivio romano, al contrario, era tutt’altro che “conviviale”. Era un luogo in cui le gerarchie sociali tra liberi e schiavi, patrizi e plebei, venivano rigidamente osservate nella distribuzione dei posti a sedere, nella qualità del vino e nella quantità del cibo, come attesta il Satyricon di Petronio. Ma, a differenza del simposio, le donne erano ammesse. Seneca osserva che esse “non meno passano le notti vegliando, non meno bevono, e gareggiano con gli uomini negli esercizi della palestra e nel tracannare vin pretto; ugualmente rigettano quel che hanno introdotto nello stomaco ormai repugnante, ugualmente succhiano del ghiaccio per dare un po’ di refrigerio ai visceri riarsi”. Nell’età repubblicana in particolare, diversi storici e letterati rovesciano una marea di contumelie sul convivio, considerato una volgare e crudele ostentazione di opulenza da parte dei ricchi e di parassitismo da parte dei poveri. Nella Storia naturale, Plinio il Vecchio si scaglia contro “l’inquietudine notturna e, ricompensa sublime dell’ubriachezza, la libidine mostruosa e la gioia nel fare il male”. Mentre il poeta Orazio nelle sue Odi lo saluta come una pausa benefica nell’angoscia quotidiana dell’esistenza, nella coscienza dolente del tempo che scorre.

 

Dopo la disfatta di Publio Quintilio Varo nella foresta di Teutoburgo (9 d.C.), le legioni di Roma non varcarono più i confini della Germania. Non fu così per il suo vino, il cui commercio dopo la caduta dell’impero si estese, grazie anche alla fioritura dei vigneti coltivati dai monaci benedettini, fino all’estremo nord europeo. Odino, il dio più importante del pantheon vichingo, non beveva altro che vino. L’Edda poetica è inequivocabile in proposito. E questo perché l’alcol nella civiltà vichinga simboleggiava l’autorità, la famiglia, la saggezza, il potere, il destino. In realtà, nelle saghe scandinave tutti gli eroi bevevano l’idromele, un miele fermentato dolce e meno costoso del vino. Diverse cronache del tempo riferiscono che la sala del “sumbel”, un banchetto rituale in cui era tassativamente vietato il consumo di cibo, spesso andava a fuoco con tutti i partecipanti tramortiti da bevute ciclopiche. Ma la morte non era temuta, anzi era attesa quasi con impazienza. Nel loro paradiso, il Valhalla, i vichinghi erano infatti sicuri di incontrare Odino, i vecchi amici e Hedrun, la capra sacra dalle cui mammelle sgorgava eternamente dell’ottima birra forte. Del resto, anche il paradiso islamico è attraversato da fiumi pieni di vino. E’ vero che l’Hadith, la raccolta dei precetti di Maometto, ne proibisce addirittura l’uso medicinale e nella produzione dell’aceto. Ma la sura 47:15 del Corano recita: “[Ecco] la descrizione del Giardino che è stato promesso ai timorati [di Allah]: ci saranno ruscelli […] di un vino delizioso a bersi, e ruscelli di miele purificato. E ci saranno, per loro, ogni sorta di frutta e il perdono del loro Signore. Essi sono forse simili a coloro che rimangono in perpetuo nel Fuoco e che verranno abbeverati di un’acqua bollente che devasterà le loro viscere?”. Vino per i beati e acqua per i dannati, insomma.

 

L’Antico Testamento è sorprendentemente permissivo nei confronti dell’ubriachezza. Il bere comunitario del primo cristianesimo

La rivoluzione delle donne che poterono bere insieme agli uomini nelle bettole londinesi. Nel 1729 in Inghilterra il primo Gin Act

Madame Geneva non ha nulla a che vedere con la città di Ginevra. Era, invece, la dea britannica del gin. Il suo nome deriva dal termine francese “genevre”, che significa ginepro. Era un’amante della mondanità e allo stesso tempo un’icona femminista, considerata “con la massima stima dalle appartenenti al gentil sesso, che la accoglievano nei loro privati appartamenti, sempre disponibile a distribuire sollievo alle numerose delusioni e afflizioni che malauguratamente tormentano quella tenera parte della creazione”. Così recita un passo della mitica Vita di Madre Gin. Pur redatta nella prima metà del Settecento, curiosamente non menziona quella vera e propria rivoluzione dei costumi che permise alle donne di bere insieme agli uomini nelle bettole londinesi. Il gin si diffuse in Inghilterra quando l’olandese Guglielmo d’Orange salì sul trono (1688). Nel 1729 venne promulgato il primo Gin Act, che regolamentava e tassava il liquore nel tentativo di arginarne l’abuso, accusato di essere causa di miseria, prostituzione, pazzia e crimini orrendi. Il vice-ciambellano Lord Hervey lamentava che “La tendenza alla sbronza della gente comune è universale, l’intera città di Londra brulicava di ubriaconi da mattina a sera.” In un famoso processo del 1734, una donna, Judith Dufour, fu accusata di aver strangolato il figlio di due anni e venduto i suoi vestitini nuovi per uno scellino e quattro penny che le servivano per comprare gin. Di fronte alle crescenti proteste popolari, il governo fu costretto ad agire. Il Gin Act del 1736 tassò pesantemente il commercio al dettaglio e stabilì che vendere gin senza una licenza era illegale. Mentre una moltitudine di onesti venditori fallivano, i contrabbandieri prosperavano. I gin prodotti dalle loro distillerie con marchi pittoreschi, come “Ladies Delight” (Delizia delle donne) o “Cuckold’s Comfort” (Consolazione del cornuto), di solito contenevano trementina al posto del ginepro. Ma ormai il gin aveva cambiato la società britannica. Le sue classi dirigenti erano spaventate dai proletari urbanizzati che non rispettavano la legge, si organizzavano in bande dedite al furto e al saccheggio, vagavano senza meta nelle strade della capitale e nei viottoli di campagna. E, quando ci si trova alle prese con ceti potenzialmente eversivi, si può anche pensare di “deportarne” una parte in un altro continente.

 

Originariamente, le colonie nordamericane non erano altro che semplici succursali della cultura alcolica europea e, dunque, gravitavano intorno alla birra. Un barile di birra pesava però molto più di un barile di liquore. Per questo un colono che partiva verso l’Ovest ignoto preferiva portare sul suo carro una botte di whisky, molto più leggera e capace di offrire sbronze più lunghe e sostanziose. Hollywood ama rappresentare il “selvaggio West” come un mondo popolato da sbandati, perlopiù indigenti. Al contrario, a ogni boom economico – minerario, delle pellicce, del bestiame – corrispondeva un boom dell’occupazione, con paghe almeno doppie a quelle della costa orientale. La mobilità della manodopera era naturalmente forsennata, e creava un enorme indotto di baristi più o meno improvvisati. Il primo saloon a essere chiamato con questo nome fu il Brown Hole nell’omonima cittadina dello Utah (1822). Solo che era ben lontano dall’immagine che ci è stata tramandata dai film western. Era infatti una tenda, con dentro due barili su cui era poggiata una tavola di legno che funzionava da bancone. Di queste tende-saloon ne sorsero a migliaia nei decenni successivi, ubicate nei pressi dei villaggi che nascevano come funghi. Bastavano pochi galloni di whisky e qualche metro di tela per arricchirsi. Ma da chi erano frequentati? Non dalle donne “rispettabili”, che non vi mettevano mai piede. Da uomini, e solo da uomini. Bianchi, in prevalenza. I neri potevano essere tollerati. I nativi erano banditi per legge. Tuttavia, gli unici che non erano mai benvenuti erano i cinesi, di solito impiegati come manovali dalle compagnie ferroviarie. Una bizzarria inspiegabile.

 

Nel West era radicata l’idea che gli uomini spendessero l’intero salario nel saloon e che, ciucchi e senza un soldo, tornati a casa picchiassero le mogli. Dopo La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher Stowe (1852), Ten Nights in a Bar-room and What I Saw There di Arthur Thimoty Shay (1854) è stato il volume più venduto della sua epoca. L’autore descrive il saloon come un inferno, in cui gli avventori bruciano nel fuoco della violenza e dell’alcolismo. Il risultato fu un grande risveglio politico delle donne. Nel 1890 fondarono l’Anti-Saloon League, invocando con forza il proibizionismo. La tesi di Forsyth è che il movimento proibizionista non fosse conservatore. Non era contro l’alcol in quanto tale. Era contro il saloon, che partoriva comportamenti brutali e distruttivi del nucleo familiare. Introdotto nel 1920, non impedì tuttavia alle donne di frequentare gli speakeasy (letteralmente, “parlare con tranquillità”), locali di una certa eleganza in cui si poteva brindare con qualche cocktail. Il proibizionismo fu abrogato nel 1933 non perché la gente voleva farsi un bicchiere, ma perché voleva lavorare. Con il grande crollo del 1929, l’economia statunitense non poteva più concedersi il lusso di cancellare industrie ad alta intensità di lavoro. In ogni caso, il saloon scomparve. L’abrogazione legalizzò gli speakeasy e i ristoranti che servivano vino. Il proibizionismo aveva vinto, ma il nettare degli dèi ancora una volta non aveva perso.

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