Aleksandr Solgenitsin, due volte esule
Nasceva cento anni fa lo scrittore, letale non solo per il comunismo, ma anche per i nostri intellettuali conformisti
"E se Solgenitsin avesse ragione?". Scriveva così Jean-François Revel sul settimanale l’Express nel 1976 in occasione dell’uscita in Francia di “Arcipelago Gulag”, l’inferno dantesco a latere del paradiso comunista. “Si ammette che la ‘testimonianza’ di Solgenitsin è ‘interessante’, occorre ‘tenerne conto’, ma il suo messaggio comincia a diventare ben fastidioso. Certo, il personaggio ha vissuto in un campo, la sua esperienza è insostituibile, ma perché si ostina ad annullare il valore del suo racconto, commentandolo, quando è evidente che i soli qualificati a commentarlo sono i redattori dell’ultimo giornaletto di provincia? I nani della penna mobilitano cosi luna la loro sufficienza per redarguire e catechizzare il grande scrittore. Lui avrebbe il diritto di descrivere ciò che ha visto, ma non quello di trarne conclusioni sulla logica profonda del sistema sovietico. Lo si dipinge come invitato d’onore di Pinochet, gli si attribuisce un elogio di Hitler, poi si smentiscono queste false notizie, si rettifica a metà. L’ingombrante predicatore per di più ci fa la morale: ‘Godete la libertà, ma non dimenticate, per continuare a usarla bisogna difenderla!’”.
“Molti intellettuali francesi lo hanno criticato, per alcuni non era di grande qualità letteraria” (Bernard Pivot)
Il 2018 è il grande anno dello scrittore russo, un anno pieno di anniversari, la sua nascita nel 1918, la sua morte nel 2008 e il suo discorso a Harvard nel 1978. Fu un evento epocale, “Arcipelago Gulag”, una terapia d’urto che cambiò il modo di pensare e di vedere di milioni di europei. Ma coloro che insegnavano come si doveva pensare ce la misero tutta per attaccare Solgenitsin.
Georges Marchais, a capo dei comunisti francesi, non perse tempo e lanciò una campagna diffamatoria contro Solgenitsin, accusandolo di parteggiare per Vlassov, il generale russo che si schierò con i tedeschi durante la Seconda guerra mondiale. “Solgenitsin scrittore vlassoviano”, divenne quasi un motto per il partito comunista e alcuni suoi intellettuali organici. Serge Leyrac sull’Humanité attacca la “campagna pubblicitaria” attorno al “Gulag”, mentre Maurice Chavardès scrive che i dissidenti russi godevano di “una certa libertà di espressione”. Analizzando retrospettivamente il caso Solgenitsin, Maurice Clavel sul Nouvel Observateur parlerà del “vasto tentativo di intimidazione morale” e della “grande operazione di terrore intellettuale che pretendeva di esercitare il Partito comunista sul nostro giornale”.
In un saggio dal titolo “L’Archipel et nous”, Claude Lefort si chiederà invece “perché abbiamo chiuso gli occhi o, non appena la realtà è stata rivelata, perché ci siamo affrettati a voltare le spalle”. Ma l’offensiva fallì. In tv, nella puntata di “Apostrophes” dell’11 aprile 1975, durante la quale fu affrontato da Pierre Daix, Jean d’Ormesson e Jean Daniel, Solgenitsin ebbe la sua consacrazione. Eppure, in tanti continuarono a screditarlo. Come Alain Bosquet, che accumulò invettive contro di lui, definendolo “un mostro di orgoglio”, e parlando dell’opera di Solgenitsin come di “ottimo giornalismo”. Max-Pol Fouchet ne minimizzerà l’importanza.
“Molti intellettuali hanno criticato Solgenitsin: per alcuni non era di grande qualità letteraria” ha scritto sull’Express Bernard Pivot. Le Monde mise in giro la falsa notizia che Solgenitsin fosse in procinto di trasferirsi nel Cile di Pinochet.
“Questi opportunisti vigliacchi si facevano un punto d’onore a non avere letto i suoi libri, ecco l’infamia” (Lucio Colletti)
La figura di Solgenitsin aveva tutto per spiacere all’intellettuale occidentale ben integrato. La capigliatura e la barba fulva da pope, l’ira del “vecchio credente”, gli occhi ieratici, la figura massiccia, la fede ortodossa, l’ideologia antimarxista e indigena, tutte connotazioni squalificanti, tanto da farne “il plenipotenziario di Dio in Russia”, come sarà definito anche al suo ritorno in patria. Solgenitsin vedeva la fibra debole e spossata di un mondo che “non ha il coraggio di morire”.
“L’approvazione universale del suo coraggio nel confronto con i leader sovietici ha lasciato spazio a una schietta disapprovazione di ciò che i pensatori occidentali benpensanti consideravano essere la sua visione non illuminata del mondo” ha scritto Lee Congdon sull’American Conservative. “La disapprovazione si trasformò in oltraggio quando, l’8 giugno 1978, il russo fece un discorso all’Università di Harvard in cui accusò l’occidente di mostrare segni inconfondibili di decadenza”.
Quell’8 giugno 1978 a Harvard apparve quell’uomo barbuto, che non era un professore, non era americano, non parlava inglese. E lo choc fu enorme. Solgenitsin quel giorno denunciò la società occidentale, stabilendo la terribile somiglianza con le società controllate dallo stato del mondo comunista nel soffocamento della vita spirituale. Forse l’osservazione più memorabile fra coloro che andarono a sentirlo sotto un cielo piovigginoso fu di Richard Pipes, professore di storia ad Harvard e pilastro della Guerra fredda reaganiana: “Avevamo sentito un attacco devastante all’occidente contemporaneo - per la sua perdita di coraggio, la sua autoindulgenza, il suo autoinganno. Era come se l’oratore, un rifugiato dell’inferno, ci avesse condannato, noi abitanti del purgatorio, per non vivere in paradiso”.
Dopo aver annunciato che il suo discorso “non proviene da un avversario, ma da un amico”, Solgenitsin lanciò a Harvard un lungo, feroce attacco alla società occidentale moralmente in bancarotta. “Il declino del coraggio”, disse, è la caratteristica più sorprendente di ciò che ha definito “l’esaurimento spirituale” dell’occidente. Ha denunciato i politici e i diplomatici occidentali per la loro debolezza nel trattare con Mosca. “Al contrario”, dichiarò, “solo i criteri morali possono aiutare l’occidente contro la strategia mondiale ben pianificata del comunismo”. Disse che l’Amministrazione Carter doveva scegliere tra confronto e cooperazione. Interruppe il suo discorso quando vide un cartello nella folla che diceva: “Non si può combattere lo stalinismo con il fascismo”. Puntando il dito contro il cartello, Solgenitsin dichiarò che era facile chiamarlo “fascista” per chi non aveva esperienza dei campi di prigionia sovietici. Attaccò anche il movimento di protesta degli Stati Uniti contro la guerra del Vietnam. “Questo piccolo Vietnam è stato un avvertimento e un’occasione per mobilitare il coraggio della nazione”, disse con grande scandalo di studenti e professori, che flirtavano con i primi nelle marce di protesta contro la guerra in Vietnam.
Il giro che fece negli Stati Uniti “fu come un immenso corteo funebre che nessuno aveva voglia di vedere” (Tom Wolfe)
Mentre Mstislav Rostropovich e sua moglie, Galina Vishnevskaya, il celebre soprano, si integrarono nel sistema occidentale (lui divenne direttore musicale al Kennedy Center di Washington, lei avrebbe cantato nei migliori teatri), Solgenitsin quel giorno scelse un secondo esilio a Cavendish, tra le colline del Vermont, dove aveva ricreato un’isola dell’antica Russia, preclusa agli estranei, ai giornalisti, dove il romanziere teneva sporadici contatti con la comunità russa locale.
Il New York Times definì Solgenitsin “uno zelota” impegnato in una “guerra santa”. George Will sul Washington Post fu uno dei suoi pochi difensori e accusò i suoi critici di “parrocchialismo intellettuale”. Tom Wolfe in un articolo del 1976 intitolato significativamente “Incolpare il messaggero”, spiegò: “Gli intellettuali d’Europa e d’America erano pronti a perdonare a Solgenitsin molte cose, ma per quel suo insistere che tutti gli ismi portavano ai campi di sterminio - per questo non era probabile che fosse presto perdonato. E infatti la campagna di antisepsi ebbe inizio poco dopo la sua espulsione dall’Urss nel 1974 (ha sofferto troppo, un fissato, è uno zelota cristiano affetto dal complesso di Cristo, è un reazionario agrario, è un egotista e un rigattiere della pubblicità). Il New York Times aveva cercato di seppellire i suoi due maggiori discorsi, e solo la pressione morale di uno scrittore solitario del Times, Hilton Kramer, li ha portati a una copertura apprezzabile. Le principali reti televisive rifiutarono di condurre l’intervista a Solgenitsin che aveva creato un tale scalpore in Inghilterra. E il mondo letterario in generale lo ha ignorato completamente. Il giro statunitense di Solgenitsin nel 1975 fu come un immenso corteo funebre che nessuno aveva voglia di vedere”.
Neanche da noi. In un articolo sulla Stampa del 1990, Enzo Bettiza, uno dei pochi che subito si misero a difesa dello scrittore, spiegò: “Ero stato nel 1962 il primo traduttore in assoluto dal russo di ‘Una giornata di Ivan Denisovic’. Ricordo il fatto perché storicamente e filologicamente comincia da lì, da quella mia traduzione, la sequela dei falsi equivoci, delle perfidie sottili, dei malintesi interessati che hanno da sempre intossicato e reso pessimo il rapporto tra il grande deicida e la cultura più teologizzante d’occidente, quella italiana”.
Bettiza si mise a tradurlo per l’Espresso, quando ricevette una telefonata del direttore, Arrigo Benedetti: “Ma che robaccia è mai questo Solgenitsin? Mi sembra un Pavese russo, un decadente che fa il rustico! Questo gergo artefatto, questo stile falsamente gretto, tutta questa letteraria saggezza e mestizia contadine!”. Dieci anni dopo i medesimi pregiudizi si faranno meno innocenti, si tingeranno di malizia ideologica e raggiungeranno secondo Bettiza “il livello di una censura canagliesca nei confronti dell’ex ufficiale dell’Armata Rossa che aveva osato proclamare che il comunismo è soltanto delitto e menzogna”.
Bettiza parlò di una “vergognosa offensiva di una vasta parte della cultura italiana contro Solgenitsin” e che “negli anni in cui il compromesso storico avanzava e le Brigate rosse uccidevano nel nome del comunismo” si articolerà su tre piani: estetico, ideologico-politico, editoriale.
“Sul piano estetico ricordo una violenta polemica, in difesa anche artistica dell’opera sul Gulag, che mi oppose sulle pagine dei giornali a Carlo Cassola il quale, con maggiore pretenziosità politica di Benedetti aveva sostenuto su per giù le sue stesse banalità: il fenomeno Solgenitsin era secondo lui nullo sul piano dell’arte, un pasticcio senza capo né coda fra storiografia dubbia e cattiva letteratura. Solgenitsin non era uno scrittore, non era neanche un vero storico, era soltanto il precario cronista di una sua disgraziata disavventura personale nei Lager staliniani che gli aveva dato alla testa”. Insomma: un povero matto. In una intervista al Mondo del 1974 Cassola aveva detto che Solgenitsin era “un retore declamatorio che non vale niente come scrittore. Con Solgenitsin mi sono trovato di fronte a uno scrittore anonimo: un corrispondente di provincia scrive meglio”.
Sul piano ideologico-politico lo schieramento antisolgenitsiano della subcultura di sinistra era ancora più netto, ancora più compatto. “In molte recensioni italiane si videro diverse firme illustri impacchettarlo e stroncarlo come anticomunista viscerale e come capofila di un potenziale neofascismo russo. Un famoso letterato arrivò addirittura a esclamare in pubblico: ‘Bisognerebbe fucilarlo!’”.
Contro lo scrittore russo “ci fu una vergognosa offensiva di una vasta parte della cultura italiana” (Enzo Bettiza)
Sul piano editoriale non ci si poteva spettare altro che la conseguenza commerciale e pubblicitaria della quarantena: “I suoi libri, dopo che erano stati dileggiati esteticamente e confutati ideologicamente, vennero sistematicamente boicottati editorialmente. Nello stesso periodo in cui Feltrinelli offriva a modico prezzo ai terroristi in erba manuali per la confezione di granate casalinghe, altri grandi editori rifiutavano la pubblicazione dell’opera solgenitsiana o, se ne pubblicavano uno spezzone, lo facevano quasi vergognandosene”. Zero pubblicità e quasi una vergogna a esporlo nelle librerie. “Nessuno vuole recensire ‘Arcipelago’, nessuno si vuole occupare di Solgenitsin”, si lamentava Domenico Porzio, allora capo ufficio stampa della Mondadori.
Così il “Gulag” finisce per languire in scaffali secondari. Durissimo il giudizio di Vittorio Strada, grande esperto di cultura russa, poi responsabile dell’Istituto di cultura italiana a Mosca: “Solgenitsin da noi è stato prima svuotato e poi censurato. La sua verità era scomoda per tutti: per i comunisti che lo consideravano un nemico, per i non comunisti laici e cattolici – che non sapevano dove collocarlo”. Non da meno Lucio Colletti: “Da noi le anime belle dell’intelligencija hanno campato attaccate alla giacca del potere, ruminando nelle greppie di quelle maleodoranti associazioni che sono le burocrazie di partito. Questi opportunisti vigliacchi si facevano un punto d’onore a non avere letto i libri di Solgenitsin, ecco l’infamia”. Giancarlo Vigorelli, per dieci anni segretario generale del Comitato degli scrittori europei, dirà che “in Italia quasi nessuna voce si è levata in suo favore. Lui scriveva che il comunismo è un delitto contro la coscienza, da noi i letterati – per esempio quelli legati a una casa editrice come Einaudi – lo liquidavano dicendo che era uno scrittore mediocre”. Irina Alberti: “Non solo fu frainteso, diffamato, ridicolizzato, vilipeso, ma fu ignorato”.
Alberto Moravia lo definisce sull’Espresso “nazionalista slavofilo della più bell’acqua”, mentre Eugenio Montale sul Corriere della Sera: “Potrà conservare la proprietà, o l’uso, di due appartamenti, potrà scrivere quello che gli pare e permettere che a sua insaputa (!) altri suoi libri si stampino all’estero; e potrà – suppongo – incassare il premio Nobel che nel frattempo gli è stato conferito, ma in nessun modo potrà fregiarsi del titolo di scrittore sovietico con le carte in regola”. Paese Sera: “Ancora prima dell’analisi storica, è la stessa ricostruzione dei fatti che è carente o addirittura assente del tutto. Come si può pretendere, a questo punto, che trovino spazio e uditorio, nel vuoto lasciato dalla storiografia, le documentazioni e le interpretazioni di parte fornite da Solgenitsin”. Una delle poche recensioni positive fu quella sul Corriere della Sera di Pietro Citati, mentre Umberto Eco lo definì “Dostoevskij da strapazzo”.
Fu pericoloso per il comunismo. Ma anche per gli intellettuali occidentali più conformisti. “Visti dalla voragine del ‘Gulag’”, ha scritto André Glucksmann, “noi occidentali sembriamo inesorabilmente dei cretini”. E’ ancora così.