L'incerto dialogo
Due filosofi e l’essere: un confronto utile ma apparente, o effettivo ma inutile. Comunque rivelatore della storia che ci attraversa
Dialoghi che incorniciano saggi. Saggi che intrecciano figure del mito e della poesia, scrittori e filosofi, immagini e concetti. A intervenire nella conversazione che funge da prologo un regista, un attore e un’attrice; e poi un pittore, uno scienziato, un poeta, un amico filosofo e un narratore: Per lumi sparsi, l’ultimo libro di Vincenzo Vitiello (per Moretti & Vitali) costringe a domandarsi ancora una volta perché la filosofia abbia abbandonato la forma dialogica che gli diede, al suo sorgere, Platone. Vitiello non rinuncia neppure a dare brevi indicazioni di regia: il dialogo si svolge “la mattina di un giorno di inizio primavera”, a Napoli, mentre si lavora all’allestimento di una pièce teatrale dal titolo tanto intrigante quanto problematico: “Hegel in concerto”. Il dialogo che invece chiude il libro ha luogo a Positano, in una calda sera d’estate, tra un ospite, “un signore di antiche abitudini” (che gli altri, con ironia, chiamano filosofo), e quattro più giovani amici “di età e professioni diverse”.
L’ultimo libro di Vincenzo Vitiello costringe a domandarsi perché la filosofia abbia abbandonato la forma dialogica che gli diede Platone
Chiunque abbia letto Platone sa che la cornice dialogica non costituisce solo una piacevole trovata letteraria, se non altro perché, almeno a quel tempo, la letteratura ancora non era nata, e trovare la forma del logos filosofico era uno dei problemi che aveva dinanzi Platone. Ma la citazione che Vitiello pone in esergo, sulla soglia del libro – prelevata dal frammento noto come il più antico programma dell’idealismo tedesco, di incerta paternità, nel quale convergevano le idee e le ricerche dei giovani “romantici” Schelling, Hegel e Hölderlin, legati all’epoca (siamo alla fine del Settecento) da intensi rapporti di amicizia – chiarisce l’intenzione ultima con cui sono convocati i più diversi personaggi (Benjamin e Celan, Vico e Borges, ma anche Medea e Giuditta, Mario Luzi e Franz Kafka): “Monoteismo della ragione e del cuore. Politeismo dell’immaginazione e dell’arte”. Ovvero: la filosofia per voce sola, che intesse da sola i suoi significati e da sola giunge sino alla verità, non basta più. Mentre il teatro ospita tutte le voci, “sulla scena della filosofia domina la voce della verità […]. Per la filosofia – per la ragione monoteistica dell’occidente – il dialogo, la pluralità delle voci è solo strumentale. Serve a presentare un’unica voce: quella della verità, che alla fine occupa tutta la scena”. Questo spiega peraltro perché, dopo le straordinarie invenzioni platoniche, Aristotele, messosi sulla via di un’enciclopedia del sapere, lasciò cadere la forma dialogica cara al maestro. Ma la filosofia come scienza, anzi: come autocoscienza del sapere occidentale e suo fondamento ultimo, è alla fine. Si torna a teatro, si torna alle origini, alla pluralità delle voci, al “non capire che è all’origine della pratica filosofica”.
Immaginate allora l’interesse che può avere il dialogo che Vitiello intreccia con Emanuele Severino, il più grande monoteista contemporaneo della ragione, in Dell’essere e del possibile, libro uscito per Mimesis quasi in contemporanea all’altro. Testi del filosofo napoletano e del filosofo bresciano: obiezioni incalzanti e risposte puntute, chiarimenti pacati e discussioni serrate. Vitiello prende il toro per le corna, e le corna – nel caso specifico – sono rappresentate dalle argomentazioni svolte da Severino nel capitolo quarto de La struttura originaria, il suo primo grande testo, che compie quest’anno la bellezza di sessant’anni, ed è tuttora indicato dall’autore come “il terreno dove tutti i miei scritti ricevono il senso che è loro proprio”. Lì si tratta del risolvimento dell’aporia del nulla, quell’aporia in cui il discorso cade quando dice del nulla che è nulla, quando cioè fa mostra di voler pensare il nulla, ma in realtà, per il fatto che lo pensa, ne fa pur sempre un qualcosa (un “pensato”). Certo, l’aporia non sorge neppure se si restringe convenientemente il significato di “essere”, di modo che non si può dire che sia qualcosa ciò che è soltanto pensato. Ma come può essere giustificata una simile restrizione? E soprattutto: che cosa “è” il pensiero, che cosa “sono” i suoi pensati se vale una simile restrizione?
Alla fine si deve pensare a Vico (secondo Vitiello): filosofia che non sta tanto nelle cose dette, ma nel modo in cui vengono dette
E’ difficile prendere la misura a domande del genere. Ci si trova quasi in imbarazzo a porle: da dove, poi, le si dovrebbe porre? Ci si colloca fuori dell’essere, per domandare su di esso? E fuori del pensiero, per lo stesso motivo? Una strategia che potremmo dire deflazionista, oggi molto praticata, si limita a giudicarle mal poste, oppure intrattabili, e ad accantonarle. I pensatori che si ostinano a formularle appaiono, da questo punto di vista, come pensatori attardatisi intorno a vecchie questioni metafisiche, a gigantomachie del passato che non significano propriamente più nulla. Custodi di parole che andrebbero – con cortesia, ma anche con fermezza – depositate ormai negli archivi (o piuttosto nei reliquiari) di una nobile, quanto superata tradizione.
Se tuttavia vi è un interesse vero a seguire la discussione fra Vitiello e Severino è perché, leggendo entrambi, non si ha affatto l’impressione che quella tradizione sia morta e sepolta (e quelle domande evitabili). Anzi: mentre si lotta intorno all’essere e al nulla, si capisce che ne va della crisi dell’occidente e della sua verità: dell’alienazione nichilistica della Terra e del suo compimento finale nel dominio della tecnica scatenata (Severino), o dell’agonia dell’Europa e delle chance di un cristianesimo ‘povero’ e de-istituzionalizzato (Vitiello). Ne va del senso dell’essere come necessità e destino (Severino) o come possibilità e anzi impossibile possibilità (Vitiello).
E lo scontro è grande. E’, anzi, un urto vero e proprio. Stima reciproca e complimenti sinceri, ma lotta senza esclusioni di colpi. Che cosa c’è, infatti, di più politeistico del pensare ‘narrativo’ di Vitiello, e di più monoteistico dell’essere di Severino? Ecco, peraltro, a cosa serviva risolvere l’aporia del nulla: a pensare l’essere dell’essere come non-nulla (non… “cosa”?). E dunque come eterno e indiveniente. Se l’essere è, in questo senso primo e radicale, non si potrà dire di nessun ente che non è, che diviene, che viene dal nulla e finisce nel nulla. Tutto l’occidente non ha fatto altro, però, che sottrarsi (credere di potersi sottrarre) a questa incontrastabile conseguenza.
Obiezioni incalzanti e risposte puntute, chiarimenti pacati e discussioni serrate: è il dialogo che Vitiello intreccia con Severino
Vitiello cita Ritornare a Parmenide, il saggio che Severino pubblica con grande fragore a metà degli anni Sessanta. C’è, in quegli anni, una certa voga heideggeriana per i pensatori presocratici, che spiega l’attenzione riservata al testo severiniano. C’è la clamorosa rottura con l’Università cattolica, dove Severino non potrà più insegnare, e c’è soprattutto un’ansia di radicalità che il filosofo intercetta e, anzi, rilancia. Ma l’originalità della posizione di Severino sta in ciò, che la critica alla tradizione metafisica, il leit-motiv del Novecento dal punto di vista del pensiero filosofico, non viene da lui condotta in termini ideologici, scientistici o storicistici, e neppure secondo i canoni allora correnti della fenomenologia o dell’esistenzialismo, ma con una impeccabile e rigorosissima strumentazione classica. La critica della ragione occidentale in nome di una razionalità ancora più implacabile, ancora più inflessibile. L’ermeneutica dei tedeschi e la différence dei francesi non scuotono l’identità dell’occidente quanto il ritorno di Severino all’immobile tautòn parmenideo, a cospetto del quale tutta la vicenda della civilizzazione occidentale non è che follia.
Vitiello cita Ritornare a Parmenide, dicevo. In particolare, il seguente passo: “Che cosa significa ‘è’ nella frase: ‘l’essere è’, se non che l’essere ‘non è il nulla’? Ossia ‘è’ significa: ‘respinge via il nulla’, ‘vince il nulla’, ‘domina sul nulla’, significa l’energia che gli consente di spiccare sul nulla”. Ora Vitiello domanda: perché occorre all’essere “energia” per respingere, vincere, dominare e spiccare sul nulla, se il nulla non è che nulla?
In una chiave storico-filosofica, si potrebbe rispondere: perché il neoparmenidismo di Severino è il perfetto rovesciamento dell’attualismo gentiliano, il quale non ha fatto altro che pensare il pensiero, motore di ogni divenire, come una simile energia. (A questa relazione Gentile-Severino, filosofia del divenire versus filosofia dell’essere, asse portante della filosofia italiana del secolo scorso, ha dedicato di recente un libro considerevole Biagio De Giovanni: Disputa sul divenire, Editoriale scientifica, in cui tra l’altro si mostra come la crisi dell’Europa sia essenzialmente crisi della sua filosofia).
In una chiave teoretica, si dovrebbe invece dar conto di come Severino consideri di avere dato soluzione all’aporia, mentre Vitiello la ritenga irrisolta e irresolubile: non solo nella Struttura originaria, ma nella stessa, complessiva logica della filosofia. Per uno la verità è incontraddittoria; per l’altro, la logica con cui quella verità si dimostra è essa stessa inficiata dalla contraddizione.
Mentre si lotta intorno all’essere e al nulla, si capisce che ne va della crisi dell’occidente, del nichilismo o dell’agonia dell’Europa
Queste diverse posizioni a riguardo della verità e della sua dimostrabilità si traducono in una divaricazione degli interessi storici e teorici, cresciuta sempre di più negli anni. Per Severino, si tratta di tornare al tema dell’identità dell’essere che “vive in Parmenide con quella sconfinata pregnanza che il pensiero metafisico non saprà più penetrare”: così scriveva nel ’64 e così ha continuato a pensare, senza mai rivedere ma anzi approfondendo sempre di più il suo primo pensiero intorno all’eternità dell’essente e all’inizio greco del pensiero; per Vitiello si tratta invece di domandare se mai cosa vi sia prima di quell’inizio. Certo vi sono, sul piano culturale, altre civiltà, le grandi forme della teogonia greca, una fiorente mitologia, ma vi è anche, su un altro piano, il continente sconosciuto del corpo, della materia, dei sensi. Ma mentre per Severino questa preistoria dell’occidente, e dell’uomo, non può fornire in nessun modo una genealogia del logos e della verità (il concetto stesso di genealogia non ha senso, se la verità è eterna), per Vitiello, il politeismo dell’immaginazione e dell’arte devono consentire di accostare il problema che la ragione non può nemmeno formulare da sé: quello che riguarda la sua stessa origine. L’origine del logos, l’origine del senso, l’origine della parola e della riflessione.
Per Vitiello, ho detto, ma in realtà per larghi tratti del pensiero contemporaneo: da Heidegger a Derrida, da Nietzsche a Foucault, non sono pochi, infatti, i sentieri che la filosofia ha seguito nel corso del ’900 per intaccare il monolite della ragione occidentale, che volta a volta si rivelava compromessa col tempo, oppure con il potere, o ancora con il linguaggio o con il desiderio, in ogni caso non più pura né innocente, non più intatta né certa di sé. Rispetto a questo panorama, il pensiero di Severino appare davvero come un imperturbabile monolite, tanto inscalfibile quanto impermeabile alle obiezioni, e dunque in un dialogo sempre meno effettivo con esse.
Si legga difatti l’ultima risposta che Severino dà in questo libro a Vitiello. Il mio critico, dice in sostanza, trova che la struttura originaria dia luogo a contraddizioni. Ma poiché la struttura originaria è incontrovertibile, tali, eventuali contraddizioni non possono che essere apparenti, soltanto apparenti, e tali rimarrebbero anche se non si trovasse il modo di uscirne. Quanto alla forma stessa dell’obiezione: se essa si formula in una tesi che pretende di essere vera, allora vorrà valere di contro alla tesi opposta, vorrà essere sé, proprio quella tesi, e non altra. Ma così ne viene confermato il mio pensiero fondamentale circa l’identità con sé di ogni essente, ivi compresa la tesi che mi si vorrebbe opporre. Come si vede, in una replica e nell’altra il contenuto determinato della tesi, o della contraddizione, non ha neppure bisogno di esser preso in esame per essere respinto.
Anche il teatro che Vitiello prova ad allestire non è tuttavia esente da problemi. Se la verità di Severino rende infatti il dialogo magari utile, ma in definitiva solo apparente, la domanda sulla verità di Vitiello lo rende reale, perfino drammaticamente reale, ma alla fine impossibile e quindi inutile, perché non c’è nessuna risposta possibile alla domanda sulla verità della verità. Paradossalmente, il confronto fra i due filosofi – la discussione, le risposte e le repliche, le deduzioni e le controdeduzioni – si rivela un fallimento. Ricco di spunti, certo, ma non per questo meno fallimentare.
A meno che non si debba dire anche di questo libro quel che Vitiello dice di Vico, l’autore a cui il filosofo napoletano da tempo affida la ricerca intorno alle origini del linguaggio e dell’intera trama logica del pensiero: philosophia non tantum locuta, quam exercita, filosofia che non sta tanto nelle cose dette, ma nel modo in cui vengono dette, nel genere di esercizio che si compie dicendole, nella prassi che accompagna il dire, che anzi “è” il dire stesso. Cosa di cui il filosofo non può dimenticarsi, ma di cui non può né deve dimenticarsi nemmeno il politico, che è l’altra figura esemplare situata sullo stesso crinale fra le parole e le azioni: azioni fatte di parole, parole che si fanno azioni e producono effetti. Così il dialogo fra Severino e Vitiello utile ma solo apparente, oppure effettivo ma inutile, ci rivela, di fatto, oltre le reciproche posizioni, la storia che ci attraversa anche quando non c’è più accordo intorno alla natura della cosa stessa. Non è forse la parabola dell’occidente, il cui ultimo frutto, la democrazia, matura e si avvera proprio al tramonto della sua verità?