I romanzi non si possono scrivere perché ci conosciamo tutti
La letteratura è diventata troppo prevedibile e autoreferenziale. Cari scrittori, fatevi venire delle idee
Un favore personale, romanzieri italiani. Non dovrebbe costare molto, e anche se costasse fa parte del mestiere che avete scelto (o da cui credete di essere stati scelti, con uno scarico di responsabilità che ricorda l’insegnamento di Homer Simpson al figlio Bart: “Devi dire sempre ‘Era già così quando sono arrivato’”). Inventate. Ripetiamo: “Inventate”. Gli anglosassoni dicono “fiction”, per sgombrare il campo dagli equivoci. Tutto il resto o è prosa d’arte o è poesia: in entrambi i casi, pratiche diverse dal romanzo. Inventate. Scrivete qualcosa che abbia qualche grado di separazione con le vostre giornate, i vostri amici, la sbronza dell’altra sera, la canzone del cuore. Qualcosa che esca dal binarietto delle vostre vite, barbose come la nostra. A volte rendete piena confessione sul risvolto di copertina, citando malanni, lutti, fidanzate fuggite, colpo di fulmine per l’autofiction dopo aver troppo letto Emmanuel Carrère (più gli scrittori – intendiamo, gli altri scrittori – sono bravi, più fanno danni).
Qualcuno è riuscito nell’impresa di avviare una bella carriera pubblicando le lettere di rifiuto editoriale a lui indirizzate. Questi sono i migliori. I peggiori sono quelli che non confessano, e neanche si nascondono dietro l’autofiction. Ma se abbiamo scambiato con loro qualche chiacchiera, o sbirciato nelle loro biografie, quando leggiamo il romanzo scopriamo che hanno per orizzonte l’ombelico (o giù di lì). Le loro fidanzate (regnanti o traditrici), le loro montagne, le loro ansie, i loro amici italiani a New York, divisi tra romani (tanti, nullafacenti) e milanesi (meno, studianti o lavoranti), la loro paura di essersi beccati il colera da piccoli, il loro primo contratto di lavoro.
Nella lista troviamo gli amici del muretto, non importa se il romanzo è ambientato nel quartiere natale, o al fronte in Iraq, o in una masseria pugliese. Lo scrittore – o la scrittrice, pari opportunità – fa un figlio? Garantito che scriverà di pannolini. Lo scrittore sposa una vegana? Garantito che parlerà di braciole mangiate di nascosto. La scrittrice ha lavorato in un call center? Racconterà i precari del call center. Vanno una settimana in vacanza a Tel Aviv o a Parigi? Il primo personaggio raggiungibile andrà a Tel Aviv o a Parigi. Nel gradino più basso stanno le celebrità del web, accolte a braccia aperte dalle case editrici perché i lettori se li portano da casa. Mica puoi stare a sindacare su cosa scrivono. E allora via con la maturità se devono fare la maturità. “Trovo che nessuno l’abbia descritta com’è davvero”, ha dichiarato una scrittrice, e già indoviniamo i futuri bestseller: il primo anno di università come lo vedo io, la scrittura della tesi come la vedo io, la laurea come la vedo io.
Se poi oltre allo scrittore conosciamo gli amici dello scrittore, li ritroviamo tra i personaggi dopo un semplice cambio di nome. Con sfacciataggine scrivono “ogni riferimento a cose e persone esistenti è puramente casuale” dopo aver sciorinato nei ringraziamenti la lista degli amici e delle amiche, qualcuno anche dell’editor, che hanno sostenuto, capito, pazientato, corretto. Ma soprattutto fornito carne da romanzo. È cosa nota e universalmente riconosciuta che “in Italia non si può fare la rivoluzione perché ci conosciamo tutti”. Figuriamoci se possiamo assegnare un Premio Strega. A richiesta, per ogni esempio fatto fin qui possiamo spifferare nome e cognome dello scrittore, titolo del romanzo, pagine incriminate. Continuate così, a farvi del male. Ma sono vietati i lamenti sui lettori che fuggono.
Universalismo individualistico