Transumanze festivaliere
Come sopravvivere alle infinite introduzioni dei festival culturali italiani che affollano le nostre estati. Guida seria per resistere a un mondo ben poco ideale
L’estate non sarà più tempo di letture, se non delle chat su Whatsapp e delle didascalie alle foto autocelebrative su Facebook, ma rimane senz’altro tempo di festival, il rito transumante che compie il pachiderma dell’alfabetizzazione per andare a morire nel cimitero dell’evento. A chiunque capiti di prendervi parte, da invitato, da moderatore, da spettatore, da spillatore di birre, da vicino di casa insonne, non è permesso di sfuggire a una cosa su tutte: l’introduzione infinita. In un mondo ideale del film che andiamo a vedere o del libro di cui sentiremmo dibattere ci basterebbe conoscere il titolo e, forse, ricevere qualche ridottissima informazione biografica sull’autore. Per il resto vorremmo fidarci a scatola chiusa del gusto del direttore artistico o della comune di cervelli che si è spremuta lungamente le meningi durante i mesi invernali per preparare il programma. Altrimenti, si suppone, non essendo noi degli imbecilli, non saremmo lì. Nell’Fci (Festival culturale italiano) è invece obbligatoria un’introduzione della durata minima di venti minuti, meglio se quaranta e con punte mitologiche, vagamente fantozziane, di un’ora abbondante. L’introduzione da festival ha una struttura fatta di caposaldi immutabili, primo fra tutti il saluto commosso e riconoscente alle autorità. S’inizia dal comune, spesso microscopico ma i cui assessori non hanno comunque più quel grado di ingenuità che renderebbe il tutto un po’ meno stucchevole e più leggero, passando per la provincia fino alla regione. In genere questi ultimi sono quelli che mettono più soldi, quindi sono un po’ i padroni della baracca perché l’Fci per definizione non può produrre denaro, deve solo bruciarne, altrimenti rischia di perdere il valore culturale. Ho sentito con le mie orecchie in un recente Fci di medie dimensioni una giovane organizzatrice chiedere scusa alla platea subito dopo aver usato l’espressione “mercato del cinema”. Unica eccezione ai ringraziamenti per i contributi pubblici, un’esclusione peraltro significativa, si dà in presenza di fondi europei, un’eventualità in cui Bruxelles non si nomina mai, pare infatti che l’oscura funzionaria polacca che appone le ceralacche sulle vittorie dei bandi non venga mai alle cene dopo le proiezioni e i dibattiti.
E’ obbligatoria un’introduzione della durata minima di venti minuti, meglio se quaranta e con punte mitologiche, quasi fantozziane
Esauriti i saluti alle autorità, ai vip in sala e conclusi anche i ringraziamenti incrociati – con applausi doverosi – fra organizzatori, si giunge al nucleo senziente dell’introduzione: il discorso sulla necessità & sui fini. Il sottinteso qui è che raccontare una storia sugli esseri umani e i loro strani comportamenti sia da sola una motivazione un po’ troppo triviale per un’opera che aspiri a trovare posto all’interno di un Fci, e, diciamocelo, sarebbe anche un po’ poco per noi che siamo qui, visto che il Pci (pubblico culturale italiano) cerca sì intrattenimento ma con i punti di rilevanza sociale ben sottolineati e numerati come negli specchietti sinottici a fine capitolo nei sussidiari. Si passa quindi a illustrare come l’opera che seguirà sia di assoluta necessità, una sorta di farmaco sperimentale e prezioso per curare un determinato male del corpo sociale. Fra le patologie più gettonate: disumanità, indifferenza, ignoranza, dominio del neoliberismo. Talvolta si fa più genericamente appello a intere categorie, quindi giovani disoccupati, esclusi dalla società, afflitti da solitudine, anziani che non hanno diritto allo sconto sui trasporti pubblici. Anche volendo per un momento prendere per buono il dogma dell’artista ingegnere e meccanico sociale la cui opera abbia un solo livello di lettura – quello a favore del miglioramento del welfare – il problema è che la complessità e gli aspetti peculiari della società contemporanea potranno talvolta entrare nelle opere (soprattutto in quelle straniere) ma mai e sotto nessuna circostanza nell’introduzione. Il suo cuore pulsante, l’epicentro retorico, è tarato infatti su di un’immagine della società italiana che viene presa di peso dagli anni sessanta, per cui, ad esempio, se siamo in provincia i giovani “non hanno occasione di vedere cose diverse da quelle che vanno in televisione”, il tutto detto mentre in platea un sedicenne annoiato segue in diretta su YouTube lo stretching di Cristiano Ronaldo in un resort della Grecia occidentale. E tuttavia questo sfasamento cronologico con la realtà fornisce un indizio prezioso all’osservatore laico che s’interroghi, durante la lunga ed estenuante attesa, sulla natura dello spettacolo a cui sta assistendo.
Se negli elementi fra di loro apparentemente in contrasto come i propositi rivoluzionari e le pubbliche riverenze alle autorità si ritrovano i tratti tipici e pressoché eterni della borghesia italiana, mano a mano che il discorso procede senza avvicinarsi mai, novello Achille di Zenone, alla fine, un’illuminazione coglie prima o poi il paziente spettatore: sta assistendo a un’omelia. Tutti quegli anni a denunciare le malefatte della chiesa santa cattolica e apostolica salvo poi tradire, attraverso un’imitazione delle forme, un istinto naturale, quasi biologico, al ritorno ai riti di un’infanzia per bene. E così l’intellettuale da Fci quando si produce nella sua inesauribile omelia introduttiva ritorna inconsciamente alle origini tanto criticate – la messa della domenica a cui lo portavano i genitori –, forme ancora vive della sua socialità perché mai abiurate davvero, essendo l’illuminismo dalle nostre parti roba appunto da schema sinottico che si manda a memoria per non capirlo. L’omelia dell’Fci pare quindi mandare – attraverso la struttura, i gesti e la trascendenza immutabile del rito – il più alberto sordesco dei messaggi: gli italiani so’ tutti uguali. Conclusione un po’ troppo severa nei confronti del paese, che forse – si sottolinea però l’avverbio – non la merita.
Capita che in platea un sedicenne annoiato segua in diretta su YouTube lo stretching di Cristiano Ronaldo in un resort greco
L’osservatore ormai sull’orlo del coma indotto dal potente anestetico vocale propone quindi una seconda direzione d’indagine, una domanda utile ad individuare almeno una differenza. Perché tutto questo indulgere, nelle omelie degli Fci, sui popoli lontani, quando nella platea ci sarà pure abbondanza di lini svolazzanti e di colori etnici ma le pelli sono bianche quanto quelle di una riunione del Ku Klux Clan? Ed ecco che emerge il problema più recente di questo sottogenere oratorio: il pubblico di riferimento. Perché vanno bene tutte le categorie di cui sopra ma serve anche una massa a cui rivolgersi, un branco compatto e indistinto di diseredati di buoni sentimenti a cui additare tutti quei mali più specifici e di nicchia. Serve insomma un popolo da dirigere.
Il problema è che se parliamo di platee, al di fuori dell’Fci – che per definizione è quasi un guardarsi negli occhi fra addetti ai lavori, un predicare ai convertiti – per questo genere di omelia ormai c’è quasi il deserto. Il vecchio proletariato ha alzato la testa se non socialmente quanto meno nella percezione – fondata o meno non è questo il punto – di sé. Forse deve badare al lavoro, alla famiglia, o ha la timeline Instagram delle colleghe da scrollare e le vacanze a Gallipoli da pianificare per portare a casa un po’ di selfie di qualità su cui campare non dico tutto l’inverno ma almeno fino a Natale. Chissà.
La struttura è fatta di caposaldi immutabili, primo fra tutti il saluto commosso alle autorità. S’inizia dal comune, spesso microscopico
Cos’abbia di meglio da fare rimane in fondo un mistero ma appare evidente come non abbia più né voglia né tempo di ascoltare pazientemente i sermoni di chi tratteggia un sole dell’avvenire che non arriva mai se non per chi lo dipinge. Rimangono al novello parroco del progresso le bolle dei lavoratori dei media o di quella che un tempo si sarebbe chiamata l’industria culturale, assieme a dei giornali sempre meno letti. Ma anche qui si rischia di non provare quel tipo di sensazione oceanica che solo la propria voce che crepita da degli altoparlanti su una piazza colma di gente dove le bandiere garriscono in un silenzio assorto, rapito, può garantire. Certo per raggiungere le masse Made in Italy ci sarebbero anche i frequentatissimi social network ma lì la battaglia fra messaggi tagliati con l’accetta la vincono inevitabilmente gli altri. Fra ruspe e magliette rosse vincono sempre le ruspe, la piattaforma tecnologia è pensata così, per massimizzare il rogo dei capri espiatori. Ecco quindi un problema di difficile soluzione, pensa il paziente spettatore che nell’attesa della proiezione ormai lambisce i sempre più attraenti confini del sonno Rem: dove trovare un popolo da difendere e dirigere con mano gentile ma ferma e che sia al tempo stesso sufficientemente educato da non morderla, quella mano? Un indizio su dove sia diretta la ricerca ce lo dà, fra gli altri, il magistrale articolo su Repubblica (genere contiguo e simbiotico all’omelia da Fci) di Tonia Mastrobuoni a proposito della polemica sul calciatore di origine turca Özil che ha chiamato Erdogan “il mio presidente” e in seguito alle proteste ha abbandonato la nazionale tedesca. Commentando il fatto che i turchi tedeschi hanno votato in massa per Erdogan la giornalista scrive: “Non è una schizofrenia di chi gode quotidianamente delle libertà di una democrazia parlamentare funzionante e sceglie nel segreto dell’urna un autocrate liberticida e – in questo caso, davvero – parafascista. E’ (sic) il grido di protesta di una minoranza importante che continua a sentirsi minoranza reietta e riscopre con Erdogan un presunto orgoglio nazionale andato perduto”.
Così, molto semplicemente e molto univocamente. Tedeschi democratici ma cattivoni, turchi filo fascisti certo, ma per dispetto. Il retore da Fci non conoscerà più con l’esattezza millimetrica di un tempo il volere delle masse autoctone ma con lo stesso grado di unilateralità e di sicumera ora sente di conoscere quello delle masse straniere, che dal canto loro sono sufficientemente lontane dal non sentire il bisogno di rispondere a questa privazione di soggettività con una pernacchia.
Serve una massa a cui rivolgersi, un branco compatto e indistinto di diseredati di buoni sentimenti a cui additare tutti quei mali di nicchia
A questo punto lo spettatore ormai ronfante è visitato in sogno da un’ulteriore problema, questa volta in prospettiva: il genere retorico dell’omelia si avvantaggia di grandi opposizioni, di confini netti e di orizzonti da tracciare, necessita soprattutto del silenzio raccolto e ossequioso della platea. Si potrebbero quindi presentare delle complicazioni quando in futuro si realizzerà anche in Italia l’integrazione che tutti giustamente auspichiamo e il selvaggio, da idealtipico elemento muto del paesaggio, diventerà un cittadino con diritto di parola e sarà impossibile per l’oratore decidere cosa pensa, lui e i milioni che si suppongono uguali a lui come dei replicanti, sulla base di una rapida annusata dell’aria fuori dalla finestra. “Sento odore di dispetto, in milioni!” non funzionerà granché, allora. Ma stiamo parlando di un tempo molto lontano, diciamo almeno 2-3.000 omelie introduttive di distanza (Oid). Ora però un po’ di silenzio, il film sta già per iniziare.
Universalismo individualistico