Viva il privilegio
Ecco come nasce, nell’antica Inghilterra, il moderno stato di diritto. Il paradosso, valido anche oggi, di uno storico nell’Italia fascista
"Un passo per il superamento definitivo dei privilegi”. “Privilegi rubati, non diritti”. “Eliminate i privilegi dei sindacalisti”. “Vitalizi, diritti acquisiti o privilegi?”. “Basta con gli ombrelloni e i privilegi”. “I privilegi della casta sono finiti”. “E’ finita l’era dei privilegi”. Eccetera. E’ un esempio di quel che salta fuori a provare un attimo a digitare su Google News la parola “privilegi”, oggi grande icona di riprovazione. Ma siamo sicuri che il “privilegio” sia poi una cosa cattiva? Ed è vero che la democrazia moderna nasce della lotta contro il “privilegio”? Non è che, al contrario, è proprio dal “privilegio” che nasce il moderno stato di diritto?
Guido De Ruggiero pubblicò nel 1925 una “Storia del liberalismo europeo” che era un disperato guanto di sfida
La Francia e la riflessione di Constant. Nel modello inglese, tutti eguali non perché senza privilegi, ma perché tutti con gli stessi privilegi
Sembra un paradosso: ma è il paradosso da cui Guido De Ruggiero partì quando nel 1925 pubblicò una “Storia del liberalismo europeo” che era un disperato guanto di sfida, nel momento in cui il fascismo stava costruendo un regime totalitario a partito unico. “Questo libro, preparato tra il 1921 e il 1924, redatto nella seconda metà del 1924, fu pubblicato nel 1925 mentre tutte le libertà italiane venivano conculcate. Esso perciò risente, nella vibrazione dello stile, dell’ambiente e del tempo in cui fu scritto”, ricordava la prefazione alla terza edizione, uscita nei 45 giorni di Badoglio. E quali sono le prime righe da cui parte questa appassionata rivendicazione della libertà di fronte alla dittatura dilagante? “‘In Francia la libertà è antica; il dispotismo è recente’. Queste parole di Montesquieu non sono prive di verità storica. La libertà è più antica dell’assolutismo della monarchia moderna, perché ha la sua radice nella società feudale. Qui essa ci appare come frazionata e quasi sparpagliata in una miriade di libertà particolari, ciascuna delle quali è chiusa in un involucro, che la cela ma insieme la protegge: come tale, noi la conosciamo sotto il nome di privilegio. Dove la forza dello stato è ridotta a una mera parvenza, la libertà non può sussistere che a questo titolo: in mancanza di una tutela superiore e comune, le singole forze cercano di tutelarsi da sé, riunendosi insieme in ragione della loro affinità più prossime, e così si procurano quel tanto di sicurezza che è indispensabile allo spiegamento della loro attività. L’aristocrazia feudale, le comunità urbane e rurali, le corporazioni di mestieri, sono gruppi privilegiati, cioè liberi nella propria sfera”.
E’ ovvio che questi privilegi sono forme di libertà arcaiche, legate a una concezione della società basata su una radicale ineguaglianza di posizioni. “Conti e baroni non siano multati, se non dai loro pari”, recita ad esempio l’articolo 21 della Magna Charta. “Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, multato, messo fuori legge, esiliato o molestato in alcun modo, né noi useremo la forza nei suoi confronti o demanderemo di farlo ad altre persone, se non per giudizio legale dei suoi pari e per la legge del regno”, dice l’articolo 39. “Se qualcuno è stato da noi spossessato o privato senza un legale processo dei suoi pari, di terre, castelli, delle libertà o dei diritti, immediatamente glieli restituiremo”, stabilisce l’articolo 52. E questa è, né più né meno, giustizia di casta. La casta impone al re: “Non ci puoi fare niente, se non in base a un processo fatto da gente della nostra stessa casta, e non da gente inferiore a noi”. Ancora oggi nel Regno Unito c’è una Camera dei Lord che si chiama anche Camera dei Pari, perché composta da gente che riteneva essenziale al proprio rango il poter essere giudicata solo dai propri “pari”. Però è questo privilegio di casta che limita gli arbitri del re, e inizia a costruire attorno all’individuo quel sistema di garanzie che oggi viene appunto definito “garantismo”.
E’ ovvio che la casta e il privilegio non possono reggere di fronte alla spinta razionalizzatrice dello stato moderno. “Da una parte e dall’altra si comincerà di buon’ora a lottare per la conservazione o l’estensione della propria potenza: l’aristocrazia tendendo a rafforzare il regime del privilegio, la monarchia a sradicarlo e a livellare i sudditi in una medesima soggezione”. Come spiega sempre De Ruggiero, “il liberalismo moderno, nelle sue origini, non è legato né all’uno né all’altro termine del conflitto, preso singolarmente, ma all’uno e all’altro insieme, cioè allo stesso conflitto. Senza la forte resistenza dei ceti privilegiati, la monarchia non avrebbe creato che un popolo di schiavi; ma senza il livellamento operato dall’assolutismo monarchico, il regime del privilegio, per quanto esteso, non avrebbe mai superato l’abisso che lo divide dalla libertà propriamente detta, che universalizza il privilegio al punto di annullarlo come tale”. Avete presente tutti coloro che a proposito della polemica sui vitalizi fanno osservare: “Va bene, magari sono esagerati, ma se passa il principio che si possono toccare i diritti acquisiti in maniera retroattiva chi più può considerarsi al sicuro?”. E qua è d’obbligo citare quella peculiare linea di interpretazione della Rivoluzione francese che va da Edmund Burke a Alexis de Tocqueville passando per Benjamin Constant, e che sta alla base della democrazia liberale moderna. I francesi non hanno capito niente, spiegò in particolare Burke nel 1790 nelle sue “Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia”. Burke era un whig che contro il governo di Londra aveva difeso i rivoluzionari americani e perfino gli indiani, ma che di fronte alla buriana di Parigi previde subito che sarebbe finita in un disastro. La Rivoluzione Inglese e quella americana, spiegava, avevano difeso diritti e le libertà storicamente nati dalla tradizione e dal “pregiudizio”: termine quest’ultimo anch’esso oggi altrettanto malfamato del “privilegio”, ma a cui lui dava un senso positivo. L'adesione di un popolo a un complesso di valori privi di giustificazioni razionali coscienti, che però danno stabilità a una società. Credendo di ispirarsi al modello anglosassone, i rivoluzionari francesi si erano invece ispirati a una ragione astratta, e completamente scollegata da ogni riferimento alla realtà.
Per certi versi più burkiano di Burke, dopo aver spiegato nella “Democrazia in America” che è la democrazia il destino ineluttabile dell’uomo moderno con “L’Antico Regime e la Rivoluzione” Tocqueville osservò che in realtà era proprio questa smania razionalizzatrice di illuministi e giacobini il “pregiudizio” francese. Cioè, la Rivoluzione aveva portato alle estreme conseguenze quella spinta centralizzatrice che tutte le dinastie francesi avevano condiviso, senza però mai riuscire ad andare oltre certi limiti. Tenendo presente l’esperienza di terrore giacobino e dispotismo napoleonico, venuto dopo Burke e prima di Tocqueville, Benjamin Constant fece una famosa distinzione tra la libertà degli antichi e la libertà dei moderni. La prima, propria delle piccole città stato, era quella di partecipare alla vita politica attraverso la democrazia diretta. Insomma, quel sogno che i grillini credono oggi di poter resuscitare grazie a Internet, rispolverando sia il mito di Rousseau, che alla democrazia degli antichi si era richiamato; sia addirittura quell’estrazione a sorte delle cariche infatti alla base del sistema politico ateniese. Ma Constant osserva che in stati dove i cittadini non sono ormai più nell’ordine delle decine di migliaia ma in quello dei milioni questa libertà “nello stato” vale pochissimo. Tra 30.000 cittadini ateniesi, con il sorteggio prima o poi capitava a tutti di ricoprire per lo meno una carica per una volta nella vita. Tra i 60 milioni di italiani di oggi, ma anche tra i 25 milioni di francesi dell’epoca di Constant, la probabilità di essere “eletti” in tal modo è più o meno la stessa di diventare milionari col Gratta e vinci. Più sostanziosa, allora, la libertà dei moderni “dallo stato”, di cui il sistema rappresentativo è un’ulteriore garanzia. Confusi tra il modello “moderno” inglese e il richiamo al modello “antico” dei libri, i rivoluzionari francesi non avevano capito la differenza, provocando appunto prima il Terrore, e poi il Bonapartismo.
“L’aristocrazia feudale, le comunità urbane, le corporazioni di mestieri, sono gruppi privilegiati, cioè liberi nella propria sfera”
La casta limita gli arbitri del re, e inizia a costruire attorno all’individuo il sistema di garanzie che oggi è definito “garantismo”
Dunque, il percorso può avvenire in modi diversi. Lo stesso De Ruggiero ricorda alcune differenze tra aristocrazia inglese e francese, sottolineando in particolare che oltremanica solo i primogeniti ereditavano il titolo. I figli cadetti dovevano dunque entrare negli affari, creando una continua commistione tra aristocrazia e borghesia. Pure De Ruggiero ricorda che essendo la Gran Bretagna un’isola, l’esercito era spesso sul continente, e la marina non era adatta a essere usata dal re per imporsi alle opposizioni. Altri storici hanno messo l’accento sulla Guerra delle due Rose, in cui la nobiltà feudale era stata sterminata e aveva dovuto essere sostituita con borghesi nobilitati. Come che sia, il risultato era stato che mentre in Francia la monarchia si era appoggiata alla borghesia per togliere i poteri a una nobiltà sprezzante di mescolarsi con i “plebei”, al contrario in Inghilterra era stata la nobiltà ad allearsi alla borghesia contro il re. Risultato francese: ai nobili erano rimasti i soli privilegi senza più la funzione sociale che li giustificava, provocando i risentimenti del Terzo stato. “L’aristocrazia, tuttora privilegiata, diventa un ceto parassitario e servile”, ricorda De Ruggiero. “Essa perde quella capacità e quell’attitudine politica che l’avevano resa una classe dirigente; e, a misura che la sua situazione patrimoniale peggiora, e che i pregiudizi di casta le impediscono di ricostituirla coi commerci e con le industrie, essa viene sussidiata o stipendiata dalla monarchia, e vede così accrescere i suoi privilegi nell’atto stesso in cui vengono meno le ragioni che potevano giustificarli”.
“Perché questi parassiti devono continuare a non pagare tasse e a godere dei diritti feudali sulla terra?”: era stata questa la protesta che infine aveva spinto il “popolo” a ribellarsi anche contro il re. Ma così l’eguaglianza era venuta attraverso la distruzione dei privilegi, lasciando il cittadino alla mercé di un potere statale che era semplicemente la monarchia assoluta più o meno democratizzata. “La Francia dovrà imparare a proprie spese che tra il dispotismo monarchico e quello democratico non v’è molta differenza, almeno quanto alla servitù”. Il Comitato di salute pubblica, l’imperatore eletto per referendum. Poi proprio quella rimeditazione di cui Constant e Tocqueville sono i massimi esponenti favorirà una maturazione. Ma l’approdo finale della Quinta Repubblica testimonia comunque di una “Francia una e indivisibile” dove lo stato è tendenzialmente più forte che nel resto dell’occidente. Charles Péguy parlò di una repubblica vera erede delle dinastie francesi, che aveva rimosso i Capetingi diventati “fannulloni” allo stesso modo in cui i primi Capetingi avevano a loro tempo rimosso i “re fannulloni” Carolingi, e i primi Carolingi avevano rimosso i “re fannulloni” Merovingi.
Al contrario, nel modello inglese l’aristocrazia legò a sé la borghesia con l’offrirle un’estensione dei privilegi via via sempre più generale. Tutti eguali non perché tutti senza privilegi, ma perché tutti con gli stessi privilegi. Processo dei pari, habeas corpus, no taxation without representation, eccetera. De Ruggiero osserva che anche nel Regno Unito nell’800 l’alleanza tra aristocrazia e borghesia si rompe. “Si dà in tal modo una curiosa reciprocità d’influssi tra il liberalismo inglese e il liberalismo continentale, durante il secolo XIX, per cui l’uno riproduce le stesse fasi che l’altro ha già attraversato nel secolo precedente, e mentre il primo prende per modello la mentalità razionalistica e democratica del secondo, questo a sua volta s’ispira alle forme tradizionali e ai privilegi dell’altro. Il risultato finale sarà una compenetrazione reciproca, da cui risulterà un liberalismo veramente europeo”.
Dal privilegio alla libertà, dunque. Ma il problema rimane. Come si vuole costruire e migliorare la democrazia? Distruggendo il privilegio? Oppure estendendolo?