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Giapponesi nella giungla, cioè quelli che demonizzano il raccontarci storie

Mariarosa Mancuso

Chiamatelo storytelling o come vi pare. serve, con queste regole

Tra i giapponesi nella giungla – fissati che ancora combattono la televisione, Hollywood e la lettura su Kindle, mentre coltivano la certezza che il neorealismo sia stato il miglior cinema italiano possibile – i più dannosi sono i nemici dello storytelling. Li ha riuniti attorno a sé Christian Salmon, con il suo saggio “La fabbrica delle storie”. Tesi: una volta c’era l’arte di raccontare storie, che era cosa buona e giusta. Poi se ne sono appropriati i politici, i capitalisti, le multinazionali, l’industria dello spettacolo, i media social e non social (aggiungere cattivi a piacer vostro, chi traffica con i libri mette in cima alla lista i romanzieri di successo).

 

E’ cosa nota e universalmente riconosciuta che per tener sveglio il lettore – da secoli e secoli – servono un ritorno a casa e una Penelope da riconquistare (i distruttori di trame sanno benissimo che i loro libri vengono letti a pezzi e a bocconi). Scriveva Vladimir Nabokov: “La letteratura nacque nella valle di Neanderthal, quando un ragazzo tornò correndo al villaggio urlando ‘Al lupo al lupo!’ e non c’erano lupi dietro di lui”.

 

Storytelling e fake news, unite nella lotta per far avanzare l’umanità. Lo sbarco dei marziani per cui Orson Welles dal 1938 viene celebrato (il teppista aveva 23 anni, fu premiato con un contratto a Hollywood) era una gigantesca fake news, perpetrata attraverso uno strumento altamente ingannevole quale era la radio (andate a leggere la storia della radio, se pensate che abbia avuto ai suoi tempi una stampa migliore di quella avuta poi dalla tv e dai social).

 

Demonizzare lo storytelling è sciocco, oltre che inutile. Vale per gli annunci falsi o “grandemente esagerati” (così Mark Twain commentò la fake news che lo dava per morto). Ricordate Barack Obama che aveva promesso “Chiuderò Guantanamo”? Se non lo volete chiamare storytelling, chiamatelo “sapiente uso della retorica”, o “bravi spin doctor”, o “leader che sanno parlare”. Siccome “una rosa profumerebbe uguale, anche se avesse un altro nome” (copyright William Shakespeare) cambiate pure il nome allo storytelling, se volete. Ma bisogna imparare a usarlo, perché resta una cosa buona e giusta.

 

Primo: lo storytelling presuppone qualcuno a cui raccontare la storia (parlarsi addosso non è storytelling: un racconto è fatto per sedurre, sempre). Secondo: la storia raccontata deve essere avvincente (“Sangue, sudore, lacrime e fatica” di Winston Churchill funzionò, nel suo primo discorso al Parlamento britannico, ma erano altri tempi). Terzo: né i dati, né i numeri – neanche le infografiche, alzi la mano chi mai ha capito qualcosa guardandone una, si saltano ormai con la rincorsa – sono storytelling. Quarto: controinformare, smascherare, indignarsi, firmare petizioni, non è storytelling (è farsi dettare l’agenda dagli altri, e se non siete bravi nella pubblicità comparativa, meglio evitare). Quinto: manifestare in diecimila e chiamarla “resistenza” non è storytelling. E’ la prova provata che siete giapponesi nella giungla, fissati su un passato che non esiste più.

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