“Così mi sono accorto che ero ebreo”. Vivere in Italia sotto le leggi razziali
A Venezia (poi al cinema e su Sky arte) il documentario di Treves
Roma. La sottile linea nera, dice sullo schermo la senatrice a vita Liliana Segre ripensando agli anni tra il 1938 e la fine della Seconda guerra mondiale, è “la firma del re” sotto alle leggi razziali – una sottile linea nera che nel giro di pochi anni diventa più spessa e si trasforma “nella rotaia che porta ad Auschwitz”. “Oggi come allora mi fa paura l’indifferenza”, ha detto Segre, dopo che al Festival del Cinema di Venezia è stato presentato fuori concorso “1938-Diversi”, documentario di Giorgio Treves prodotto dalla Tangram Film di Roberto e Carolina Levi con Sky (sarà nelle sale dall’11 ottobre e andrà in onda su Sky Arte martedì 23 ottobre alle 21.15). Segre, nel film, torna con la memoria nel sottoscala della stazione di Milano, tra “fari”, “cani” e “amici fascisti” dei nazisti. Ma c’è un prima, il prima in cui non tutti si accorgono del crescendo: dalla privazione dei diritti si sta passando alla prospettiva della persecuzione fisica. Qualcuno avverte la minaccia, qualcun altro – avendone i mezzi – scappa all’estero. Gli altri restano in una quotidianità svuotata di senso: non si è più “italiani”, dal pomeriggio in cui le leggi razziali sono diventate realtà (dopo una seduta di neanche un’ora in Parlamento).
Sullo schermo scorrono le immagini di repertorio delle adunate ma anche i volti dei sopravvissuti e degli storici che di quel periodo hanno ricostruito gli aspetti propagandistici (nelle vignette che prima deridono i tratti somatici dell’emarginato e poi disegnano un emarginato che è anche diventato “nemico” da eliminare) e gli strumenti (la Direzione generale per la demografia e la razza e il Tribunale della razza) di cui il regime si serve per applicare la legislazione che vuole fare dell’Italia “una nazione ariana” al cento per cento.
Come ci si arriva? Perché e quando Benito Mussolini prende la decisione di cancellare le differenze tra fascismo e nazismo in tema razziale? E come vive, chi subisce le conseguenze dell’applicazione delle nuove leggi, la metamorfosi da normale cittadino integrato (e a volte anche convinto dell’appoggio al Partito fascista) – e quindi metamorfosi da professore universitario, soldato, musicista, imprenditore, venditore, affittacamere – in paria senza professione, scuola, prospettive e dignità nell’Italia che nel primo dopoguerra si è affidata al cosiddetto “uomo forte”?
La maestra, racconta ripensando al se stesso bambino uno dei testimoni intervistati, ci ha parlato di differenza tra le razze e poi mi ha detto di uscire dalla classe, e io mi sono ritrovato da solo in cortile a piangere, fino a che il direttore non mi ha detto “verranno tempi migliori”. “Improvvisamente siamo diventati una famiglia miserabile”, racconta un altro testimone, che si è “accorto di essere ebreo” il giorno in cui il padre è stato licenziato dall’orchestra Eiar. C’è l’aspetto pubblico dell’azione anti ebraica, con il cosiddetto “decalogo” pubblicato in prima pagina, per volontà di un Mussolini ex giornalista che si affida a “tecnici” per teorizzare “scientificamente” e pubblicamente quello che ha già deciso nei fatti.
E c’è l’aspetto privato, quel lento prendere coscienza descritto da Liliana Segre, che riporta se stessa ai giorni in cui vedeva la casa dei suoi riempirsi di lacrime, ansia, amici che venivano a consolare, parenti in partenza che venivano a salutare. C’è il degradare verso il suddetto Binario 21, quello che dalla stazione di Milano porta al baratro, ma anche l’inconsapevolezza del bambino che si imbarca per l’America – ma per lui non è fuga verso la salvezza, solo “avventura” tra oceano e transatlantico, con pesca dall’oblò.
Qualcuno non ci crede: coltiva l’illusione che le leggi razziali siano un punto d’arrivo e non di partenza. Qualcuno ha capito dal primo momento, e si uccide gettandosi da una torre. Qualcuno cerca di ragionare, di attaccarsi alle piccole cose che fanno restare vivi, ma a un certo punto è costretto a mettere la vita in pausa, sperando di ritrovarla al punto in cui l’ha lasciata chissà quando.