Capolavori impossibili
La tarda età e l’opera assoluta, tra utopia e incomprensioni. Da un racconto di Balzac a Cézanne e Picasso
Conviene mettere in chiaro sin dall’inizio che percorrere il racconto di Honoré de Balzac Le Chef-d’œuvre inconnu significa non temere di trovarsi spaesati e come riflessi in un caleidoscopio di visioni e significati. Annegare con i personaggi nel gorgo delle passioni estreme giù sino all’impotenza della creazione artistica per giungere all’irraggiungibile mito della perfezione impossibile e al tragico sfumar via del coronamento ultimo!
A Parigi, nel 1612, il giovane Poussin incontra il vecchio pittore Frenhofer che da dieci anni sta lavorando al suo capolavoro
Questo racconto dalle travagliate vicende editoriali esce a stampa per la prima volta sulla rivista L’artiste suddiviso in due puntate. La prima il 31 luglio 1831 dal titolo Maître Frenhofer, la seconda il 7 agosto dello stesso anno col nuovo titolo Catherine Lescault e contenente non poche modifiche. Si dice che Balzac prenda spunto da un racconto fantastico di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, Der Baron von B. Proprio in quegli anni infatti il gusto del fantastico per adulti incontra un clamoroso successo in Francia innervando la severa e magica visione germanica nella raffinata e cosmopolita cultura parigina. Ancora nel 1831 il racconto viene pubblicato nel terzo volume dei Romans et contes philosophiques, rivelando le intenzioni di Balzac nel voler considerare l’opera una sorta di saggio narrativo al quale egli aveva apportato molte varianti incluso il titolo stesso che diviene ora Gillette. L’anno seguente (1832) il lavoro appare negli Études philosophiques, ricostruito in modo da dar spazio all’esplicito atteggiamento estetico speculativo. Quattordici anni dopo (1846) il racconto compare nella Comédie humaine, finché nel 1847 in Le Provincial a Paris ritorna pubblicato come Gillette.
Il racconto è ambientato a Parigi verso la fine del 1612, in una fredda mattina di dicembre, quando il giovane Nicolas Poussin si reca in visita, in un palazzo di rue des Grands-Augustins, all’atelier di Porbus (Frans Pourbus II il Giovane) per prendere lezioni di pittura. Sulle scale il giovane incontra uno strano vecchio che sale, e nota “qualcosa di diabolico in quella figura”. Rivelerà di chiamarsi Frenhofer. Entrati, sono attratti da uno splendido dipinto che rappresenta una Maria Egiziaca. Poussin è entusiasta della qualità dell’opera ma il vecchio Frenhofer dà vita a una appassionata e aspra critica del quadro: “La tua brava donna non è male impostata, ma non vive… nonostante lodevoli sforzi, non potrei credere questo bel corpo animato dal tiepido soffio della vita! … Che manca? Un nulla, ma quel nulla è tutto”. Agguantata tavolozza e pennelli, sotto gli occhi stupefatti di Poussin e Porbus, Frenhofer trasforma la figura della Santa con pochi tocchi magistrali. Agli stupiti artisti Frenhofer aggiunge che però quell’opera “… non vale ancora la mia Catherine Lescault”. Poi, invitati i due pittori a cena, rivela loro di stare lavorando da ben dieci anni al suo capolavoro, la sua opera segreta e assoluta. Ma aggiunge: “Ahimè! Per un momento ho creduto che la mia opera fosse conclusa ma di certo mi sono sbagliato”.
I due stupefatti altro non trovano che “… colori confusamente ammassati, delimitati da una moltitudine di linee bizzarre”
Egli è insoddisfatto, pensa servirebbe forse una modella perfetta, una donna di bellezza incomparabile. Porbus ha la soluzione. L’amante di Poussin, Gillette, è davvero una bellezza fuori dal comune. La può avere, ma in cambio dovrà mostrar loro l’opera segreta. “Mostrare la mia creatura, la mia sposa, strappare il velo con cui ho castamente rivestito la mia felicità? Ma sarebbe un’orribile prostituzione. Cessare d’esser Padre, Amante e Dio?”. Eccoci già alla Sindrome di Frenhofer, quella che sembra colpire lo stesso Balzac all’epoca del racconto, e alle sue continue insicurezze e variazioni.
Poussin convince Gillette a posare per Frenhofer, anche se la ragazza teme che ciò possa significare leggerezza e disamore da parte del suo amante. “E’ comunque soltanto un vecchio – dice Poussin – non potrà vedere in te altro che la donna. Sei talmente perfetta!”. Di malavoglia, “Sta bene andrò”, decide Gillette. E’ il prezzo da pagare per poter vedere l’opera segreta di Frenhofer.
“Entrate, entrate”, dice il vecchio, “la mia opera è conclusa, ora posso mostrarla con orgoglio. Giammai pittore, pennelli, colori, tela e luce faranno una rivale di Catherine Lescault”. L’opera, con un’eccitazione soprannaturale, viene scoperta, e i due stupefatti altro non trovano che “… colori confusamente ammassati, delimitati da una moltitudine di linee bizzarre che formano una muraglia di pittura”. “C’è una donna là sotto”, sbotta Frenhofer che aggiunge trasognato: “Occorre fede, fede nell’arte”. “E’ poeta più ancor che pittore”, sussurra Poussin e Porbus aggiunge “… rappresenta il limite nella nostra arte sulla terra”. Poussin incalza: “… ma presto o tardi s’accorgerà che non c’è nulla sopra la tela”. “Nulla, Nulla, ho faticato per dieci anni”, urla furente Frenhofer e mette alla porta in malo modo i due e Gillette.
Le acqueforti di Picasso del 1931: l’ossessione di un lavoro che si protrae nel tempo, con i primi bozzetti che sono già del 1924
Il giorno dopo Porbus viene a sapere che Frenhofer è morto nella notte dopo aver bruciato tutte le sue tele. Parte una ridda di congetture e di possibilità interpretative infinite quanto ardue, che sfidano filosofi, intellettuali e artisti d’ogni natura e cultura, tutti enigmaticamente sconcertati dal ventaglio delle letture possibili, dei modi d’intendere che possano vedere più lontano di quanto offrano le formule semplificatorie fatte per liquidare il testo soltanto come una fantasiosa fuga in avanti nel tempo dell’arte.
Davvero il racconto turba la coscienza dei posteri se da Henry James a Rainer Maria Rilke, da Marcel Schwob ad Émile Zola, da Cézanne a Picasso sino a Willem De Kooning, tutti si son sentiti attratti da uno svolgersi narrativo costruito a scatole cinesi e che ha a che fare, come scrive Flaminio Gualdoni con “… la coscienza dell’impossibilità di raggiungere per qualsiasi via, qualcosa che si possa dire la verità ultima dell’immagine…”.
Se nel racconto di Balzac si gioca la partita con l’intenzione di travalicare la fisicità dell’opera sfinendola di velature e di segni in una sorta di impossibile sublimazione del fisico, il personaggio di Theobald nel racconto di Henry James La madonna del futuro del 1873 porta alle stesse conseguenze la lenta smaterializzazione dell’opera sino alla sua totale scomparsa. E’ certo una sorta di ricalco (forse ironico) del personaggio di Frenhofer ma – come sovente accade – è proprio l’ironia a esser l’arma più pungente e tagliente.
Theobald, un pittore stravagante, è all’opera per realizzare una nuova versione della Madonna della seggiola che possa essere la fusione ideale di tutte le Madonne di scuola italiana. Vuole un quadro definitivo, assoluto, oltre al quale sia impensabile e impossibile andare. Un vortice di citazioni mentali è presto sostituito da ripensamenti radicali che costringono Theobald a una corsa senza sosta alla ricerca della fusione ideale. La testa di Theobald è colma di elementi figurativi disponibili ma l’asfissiante indecisione lo conduce alla paralisi totale. La sua tela resta bianca. Adesso l’opera vale il suo supporto a conferma, forse, della impossibilità (inutilità?) di pensare di produrre opere dalle vocazioni estreme se non addirittura di produrre opere in generale. Forse l’assoluto sta proprio nell’opera mai eseguita, se le velature e gli spessori cromatici di Frenhofer, come il bianco del gesso della tela non dipinta di Theobold, hanno valore di un progetto incompiuto o mai iniziato.
Nelle sue Vies Imaginaires del 1896, Marcel Schwob sembra non esimersi dal confronto con Le Chef-d’œuvre inconnu quando narra in chiave di pura invenzione letteraria le vicende di Paolo Uccello, pittore travolto anch’egli da una fede esclusiva alla ricerca della sua opera suprema, opera che – anche in questo caso – nasconde gelosamente a tutti.
Immerso nel folle intento di geometrizzare e razionalizzare il mondo visibile, osservare direzioni di linee, convergenze di rette, intersezioni, col capo pensoso avvolto nel mantello vive scordandosi persino di mangiare e bere. “Credette di poter mutare tutte le linee in un solo aspetto ideale!”.
Quando incontra una leggiadra fanciulla di nome Selvaggia è attratto più che altro dalle linee prodotte dalla flessione del suo sorriso. Lei sta accoccolata e ama Paolo e quando la sera egli studia con Brunelleschi o Manetti lei s’addormenta davanti alla parete coperta di segni, geometrie, linee e proiezioni. In casa non si mangia. Selvaggia in silenzio si lascia morire. Lui disegna quel corpo con linee e segni ma “… non seppe che fosse morta come non sapeva che fosse viva”. Era vecchio, ormai nessuno capiva più i suoi quadri mentre egli ancora “… da lunghi anni lavorava alla sua opera suprema che nascondeva a tutti”. Terminata l’opera a ottant’anni, chiama Donatello e scopre religiosamente l’opera. Donatello muto non vede altro che un groviglio di linee.
Emile Zola pubblica nel 1886 il suo quattordicesimo romanzo del ciclo I Rougon-Macquart dal titolo L’Œuvre (Vita d’artista o Il capolavoro) in cui il pittore maledetto Claude Lantier combatte per far valere la sua visione nuova e radicale del far arte al punto di alienarsi amici e critici e soffrendo sconfitte continue. Abbandonata la sua donna Christine, si rinchiude in un sordido capannone colto da una frenesia creativa che lo spinge ad abbandonare ogni opera appena iniziata alla ricerca affannosa di ciò che non riesce a cogliere e che spera di trovare nell’opera successiva. Mai soddisfatto si sente vittima dell’imperfezione. Una sua opera di grandi dimensioni, L’enfant mort, in ricordo del figlio scomparso bambino viene ridicolizzata: “… i giovani sfottevano la grossa testa, una scimmia crepata per aver inghiottito una zucca…” . Claude si suicida. Ora nella terra, commenta un amico: “… non ha quadri da fare… tanto vale andarsene piuttosto che accanirsi…”. La battaglia di Claude è quella ingaggiata con l’opera stessa, dal momento che non vuole in realtà limitarsi a dipingere quadri che non siano deludenti ma aspira in realtà a dar vita a un’esistenza possibile e raggiungibile soltanto attraverso uno sforzo di sangue.
Se, come pare, Zola per il personaggio di Claude Lantier si è ispirato davvero a Paul Cezanne proditoriamente suggerendo la perfetta sovrapposizione di due fallimenti, il fatto segna la rottura di un’antica amicizia e dichiara l’evidente scelta per la trionfante cultura accademica che non si affeziona alle radicali innovazioni del plein air, intuizione della vorace avanguardia impressionista in arrivo. In una sorta di percorso circolare si ritorna alla follia del Chef-d’œuvre inconnu se, come racconta Emile Bernard che appassionatamente scrive di Cézanne ormai lontano da Parigi e relegato al Sud ad Aix-en-Provence, “… una sera, mentre gli parlavo del Capolavoro sconosciuto, si alzò da tavola, rimase in piedi di fronte a me, battendosi il petto col pollice senza una parola, solo ripetendo quel gesto, indicò se stesso quale personificazione di quel personaggio di romanzo!”. “Frenhofer c’est moi!”.
Quando Claude Bernard scriverà di Cezanne, riporterà una frase di Balzac evidenziando come in Frenhofer si possa facilmente ritrovare lo spirito di Cézanne: “… Frenhofer è un uomo appassionato della nostra arte, che vede più in alto e più lontano degli altri pittori”. Egli soffre l’isolamento e l’incomprensione e in una lettera a Emile Bernard del 26 maggio 1904 scrive tra l’altro: “… le chiacchiere sull’arte sono pressoché inutili. Il lavoro che fa realizzare progressi nel proprio mestiere è una ricompensa sufficiente all’incomprensione degli imbecilli”. Egli non dipinge per gli imbecilli ma per l’impossibile raggiungimento della verità, quello stesso destino etico-estetico che incontrerà Rainer Maria Rilke alla scoperta del mondo cezaniano. Il 6 ottobre 1907, un anno dopo la morte del maestro di Aix, Rilke è al Salon d’Automme dove è in corso una retrospettiva della sua opera. Egli ne è folgorato e da allora si reca al Grand Palais ogni giorno sino alla chiusura della mostra. Ne è testimone un corpo di lettere che il poeta chiamava Briefe über Cézanne, una sorta di cronaca dell’incontro appassionato e totale con l’essenza di un artista che sente fratello. Anche Rilke vivrà lunghi periodi di grandi crisi creative e sempre si rimprovererà di non aver seguito, per tutta la vita, gli insegnamenti di Cézanne. Come scrive Andreina Lavagetto: “… Rilke ha capito la lezione di Cézanne ma dopo che la poetica del vedere e del dire oggettivo aveva già dato i suoi frutti. Cézanne, semmai è l’evento che apre l’opera del silenzio, della fatica…”.
Trionfante, il capolavoro di Balzac ritorna nella sua forma più smagliante un secolo dopo (1931) ad opera di Ambroise Vollard e di Pablo Picasso. Proprio Vollard aveva incontrato anni prima in una piccola bottega di colori parigina un’opera di Cézanne. Subito ne intuisce la grandezza e diviene suo mercante. Nel 1895 al 39 di rue Laffitte, Vollard propone mostre di Van Vogh, Cézanne, Gauguin e infine nel 1901 di Picasso. Lungimiranza fatta d’intuizione e coraggio quando mette in atto la Ambroise Vollard Editeur, che lo porterà a produrre i più raffinati livres des peintres di tutta un’epoca. La sua prima opera (1900) sarà Parallèlement, con poesie di Paul Verlaine e illustrazioni di Pierre Bonnard. Brilla però tra le edizioni più rare e avvincenti proprio quella del Chef-d’œuvre inconnu realizzato con acqueforti e legni di Picasso.
In un racconto di Henry James, il personaggio di Theobald porta alle stesse conseguenze la lenta smaterializzazione dell’opera
E’ Picasso questa volta a vivere l’ossessione di un lavoro che si protrae nel tempo se i primi bozzetti sono già del 1924, sette anni di lavoro in cui l’artista interagisce con il testo in un rapporto strettissimo fatto di sensualità, il corpo della donna, l’intreccio complesso di pittore e modella. La stessa ansia che Balzac incarna nei gesti e pensieri di quel vecchio: “… dalla stravaganza dell’abbigliamento e dalla magnificenza della sua goletta di pizzo…”. E poi barba beffarda, sguardi magnetici: Frennhofer in persona. Picasso intuisce, come suggerisce Gualdoni, le pene di quel “triangolo amoroso che s’instaura tra l’artista e la modella in carne ed ossa e l’immagine dipinta in cui ad avere sempre la meglio è proprio l’opera a discapito della donna”.
Sono acqueforti molto note dal segno purista e classicheggiante a costituire la suite dell’edizione mentre le pagine del testo alternano disegni e incisioni su legno, straordinarie visioni e frammenti di temi picassiani in un gioco di continue citazioni. Il volume di Vollard-Picasso s’apre con 13 pagine en manière d’introduction, puri fuochi d’artificio picassiani che danno l’idea di un gioco automatico di grafismi di pura astrazione da ripetere all’infinito come per dilatare all’estremo il tempo, l’attesa.
Profondamente sedotto dal racconto, Picasso nel 1936 s’installa proprio al numero 7 di rue des Grands-Augustins, lo stesso indirizzo ed edificio in cui è ambientato il racconto di Balzac, lo stesso dello studio di Porbus dove Poussin incontra Frenhofer. In quell’atelier Picasso dipingerà Guernica.
E’ proprio vero che il racconto può aver turbato la coscienza dei posteri se ancora negli anni 40 e 50 sappiamo che la ormai dominante cultura americana si entusiasma alla rilettura di quel testo. Harold Rosenberg lo testimonia quando scrive dell’espressionismo astratto e in particolare delle opere di Willem de Kooning, che tormentato annega sciabolate di segni e seppellisce sotto muraglie di colore le tanto famose Women degli anni 50. Ossessioni abrase e violentate, forse proprio pensando alle tre donne protagoniste chiave dell’enigmatico racconto di Balzac.