Il futuro com'era
Mille modi per dare ordine al tempo. Nella casa museo di Barbanera, l’almanacco più popolare, che vende ancora anche se non serve più
C’era una volta, tanto tempo fa, un mercante senza nome. Girava di città in città, con il suo carretto di cianfrusaglie. La gente che lo vedeva arrivare ogni tanto non sapeva bene come chiamarlo e allora tutti presero a rivolgersi a lui per il suo tratto più riconoscibile, una lunga barba nera, che lo faceva assomigliare più a uno stregone o a un demone cattivo, che a un venditore. Questo venditore non si limitava a vendere cianfrusaglie e unguenti che chissà se poi funzionavano davvero. No. Vendeva anche qualcosa che aveva a che fare con il tempo e con il futuro: dei fogli da appendere in casa, sui quali erano indicati i giorni dei mesi a venire, le piogge, le fasi lunari, le possibili sventure. Nessuno poteva dirlo con certezza, ma in tanti credevano che comprare uno dei suoi almanacchi, con su scritto “un anno di felicità” e appenderlo alla porta, garantisse fortuna. Al contrario, si temeva che brutte cose sarebbero potute succedere a chi si rifiutava.
E’ più o meno questa, e ha i contorni confusi delle cose che non si sa se sono successe davvero o se se le è inventate qualcuno, la storia dell’Almanacco di Barbanera. Un volumetto le cui origini, appunto, si perdono nel tempo, le cui prime tracce concrete risalgono alla fine del ’700 ma che ancora oggi viene scritto, stampato, distribuito in più di due milioni di copie ad affezionati cultori e nuovi curiosi. A occuparsene è l’editore Feliciano Campi, insieme a un pugno di caparbi e sinceri redattori, che ogni anno mettono insieme ricette, calendari, consigli, fasi lunari, oroscopi, nozioni di spicciolo buon senso e ricette di cucina.
All’inizio erano anche consigli per il contadino. “Oggi siamo all’opposto: ci si rivolge al cittadino che vuole sentirsi un po’ bucolico”
“L’almanacco è faccenda antica che per forza di cose ha dovuto cambiare temi e toni negli anni – ci spiega il direttore Luca Baldini –. All’inizio era un foglio solo, venduto, pare, da questo barbuto viandante, e sul quale erano indicate poche semplici informazioni, più con simboli che con lettere, visto che i contadini del ’700 erano spesso analfabeti. Poca roba: quando è prevista pioggia, quando la luna piena, quando i giorni di festa”. Poi ovviamente le cose sono cambiate, i contadini non solo si sono alfabetizzati, ma, in buona parte, hanno smesso di esistere. “Per questo l’almanacco è cambiato insieme ai suoi lettori e, con gli anni, è diventato un volumetto sempre più ampio e ricco di informazioni varie, utili non più e non solo a chi viveva in campagna ma anche a chi voleva farsi borghese e allora aveva bisogno di qualche consiglio pratico su come diventare più urbano. Oggi, invece, siamo all’esatto opposto e ci rivolgiamo al cittadino che vuole sentirsi un po’ bucolico, e allora fa l’orto sul balcone, la marmellata in casa, ricicla vecchie cose… Sono passati secoli dai tempi del viandante Barbanera, ma la sostanza è sempre la stessa: l’almanacco serve a ricordarci chi, nel corso dei prossimi mesi, vogliamo essere. Un promemoria, una stampella che sia di aiuto alla sola buona volontà”.
E che l’Almanacco di Barbanera sia, in buona sostanza, cultura vera e profonda, che affonda le radici nella terra della tradizione contadina e con le dita sfiora gli astri e i pianeti dell’oroscopo è facile da capire, anche se si camuffa sotto gli stracci della cultura popolare e domestica, fatta di erbe aromatiche sul balcone e conserve di stagione. Basta guardare la bellezza della sede della casa editrice, una villa settecentesca, poco fuori Spello, circondata da un orto botanico e da un giardino di semenze rare. Ma basta guardare soprattutto, l’imponenza della collezione di almanacchi conservata dalla Fondazione, oggi patrimonio dell’Unesco: oltre 10 mila volumi conservati tra teche e vetrine e accuditi, più che catalogati, dalla appassionata conservatrice Raffaella Sforza, che ci guida in questo mondo fatto di carta ammuffita e di calendari scaduti, con lo zelo un po’ logorroico delle persone che amano il lavoro che fanno. “La raccolta conta circa seimila volumi, raccolti tra rigattieri, bancarelle e cantine dall’editore Feliciano Campi, che si è dato da fare a raccattare tutto quel che trovava consapevole del fatto che, per definizione e anche un po’ per superstizione, finito l’anno i calendari e gli almanacchi si buttano via. Un patrimonio che rischiava di andare perduto per sempre”.
Dall’editore Campi anche i “foglioni” con la cronaca nera e poi i testi delle canzoni di Sanremo, fino al rotocalco Sorrisi e Canzoni
Il primo Almanacco di Barbanera conservato risale al 1762: un foglio unico, fragilissimo, conservato in una teca, che tiene il conto degli eventi che, quasi 300 anni fa, erano considerati futuro. L’Almanacco si apre con un discorso generale sull’anno che sarà, e poi, scende nel dettaglio, con i giorni dell’anno, le fasi lunari, l’oroscopo, le previsioni del tempo, le feste comandate, i giorni buoni per potare e seminare, quelli adatti alle nozze, quelli invece da evitare per malasorte, la quaresime e i solstizi. Tutte informazioni che servivano a scandire le cose, le stagioni e a dare ordine al magma indistinto del tempo.
“Per capire il mondo degli almanacchi e dei calendari – dice Sforza mentre si infervora che è un piacere guardarla – occorre capire a cosa servono. Il punto è la ciclicità del tempo: i calendari e gli almanacchi sono un grande ansiolitico naturale che serve a ricordarci (o a farci capire) che avremo una seconda possibilità, che potremo rifare, riprovare, crescere e migliorare: pazienza se oggi è andata male, tra poche ore sorgerà un nuovo giorno e le cose andranno meglio e potremo riparare a un danno fatto, o avere maggiore fortuna di quella di oggi; pazienza se questa estate il raccolto è stato scarso, presto ce ne sarà un altro e possiamo sperare che sarà abbondante. I calendari sono lì a dirci che non è vero che il tempo non torna. In realtà, torna. Solo ci mette un po’”.
Per questo nell’Italia contadina i lunari e gli almanacchi erano tanto diffusi, e per questo, più di tutto ebbero successo all’inizio del XX secolo, quando i contadini presero a trasferirsi in città e ad avere vite più complicate.
Il primo Almanacco di Barbanera conservato a Spello risale al 1762: un foglio unico, fragilissimo, custodito in una teca
“E’ difficile per noi che viviamo negli anni Duemila comprendere la diffusione e l’importanza di questi fogli che poi nel corso degli anni e dei secoli si sono trasformati in volumetti, e hanno avuto decine di cloni e imitazioni, come Il Barbabianca, Il Barbavera o il Barbagrigia, o concorrenti come il Pescatore di Chiaravalle o il Sesto Cajo Baccelli, fino poi agli exempla del primo Novecento e del ventennio, con volumi come il Manuale del Buon Soldato, quello della Buona Moglie o del Buon Marito, o quello del Fanciullo che addirittura veniva usato come libro di testo a scuola: cataloghi di consigli di buon senso e buona educazione, usatissimi in una società che cercava di ergersi da contadina a borghese, e che, arrivata in città, si sentiva un po’ come Renzo con i capponi ed era affamata di strumenti, consigli, guide. Con il tempo, poi vi si aggiunsero anche altri volumi, ancora più specifici, come l’Almanacco dell’Emigrante, un volumetto venduto nei negozi di Brooklyn e dintorni e rivolto a chi era emigrato in America e che, oltre al calendario con le feste comandate, indicava anche quanti litri ci sono in un gallone, quanto ci vuole per fare un miglio o un piede, come si chiede un’informazione in inglese, o come si affronta la trafila per chiedere la cittadinanza nel Nuovo Mondo”. Libri veri, di utilità vera e urgente, che venivano diffusi e letti in un’epoca in cui i lettori, quasi sempre, non sapevano neppure leggere, ma volevano sapere quando seminare e mietere, quando piove e quando rasserena, e come si acconciano i capelli per non tradire di esser cafone e quanto accidenti pesa una libbra. Così i libercoli di Barbanera e concorrenti offrivano informazioni che era impossibile trovare altrove e la cui sopravvivenza cartacea e vagamente antiquaria, oggi, ci fa chiedere quando, accidenti quando, l’editoria popolare ha smesso di dire pratiche verità (magari condite di superstizione contadina) e ha preso a raccontare panzane da quattro soldi, buone solo a inventarsi un nemico che non c’è e a raccattar voti di seconda mano? Quando, il vecchio adagio del cielo a pecorelle che porta pioggia a catinelle ha lasciato il posto a un cielo striato di malevole scie chimiche traccia di un feroce complotto globale per il controllo delle menti? Quando la spicciola sapienza che diceva che i mali di stagione si prevengono tenendo una castagna in tasca e, se proprio occorre, si curano con le tre L di “lana, latte e letto” ha lasciato posto alla tracotanza di chi non vaccina i figli, perché a lui no che non la si fa? Quando, insomma, la cultura popolare ha smesso di dire verità semplici e ha preso a raccontare bugie arzigogolate?
Un grande ansiolitico naturale, per “ricordarci che avremo una seconda possibilità”. C’era anche l’Almanacco dell’Emigrante
“Lo sappiamo anche noi che serviamo a poco o niente e che oggi chi vuole fare l’orto e vuole piantare le zucchine, siano in giardino o sul balcone, non sfoglia il nostro almanacco, ma va su Internet e scopre come si fa. Lo stesso vale per argomenti più moderni come il compostaggio, o il riciclo di vecchi utensili da cucina che non si usano più. C’è internet, che risponde a tutto. Noi, in realtà, non serviamo più”, conclude ancora Baldini, mentre l’aria si gonfia dell’attesa di un inevitabile “ma…”. “Ma – ah, ecco, appunto – il nostro ruolo, oggi non è più quello di dire alle persone come coltivare le zucchine. Il nostro ruolo oggi è quello di essere custodi di una dimensione del tempo, della ciclicità delle cose, delle stagioni e della consapevolezza che le zucchine, se vuoi, puoi anche coltivartele da solo, non crescono già cellophanate. Serviamo da promemoria del fatto che un altro mondo è esistito ed esiste, ed è possibile farne parte, non ci è precluso, anzi, ne siamo i custodi. Per questo vendiamo ancora due milioni e mezzo di copie ogni anno anche se non serviamo più. Perché anche se le nostre pagine parlano di vendemmia, orti e marmellate fatte in casa, in realtà c’è scritto chi eravamo, da che posto veniamo e dove, in qualche modo, ameremmo tornare, recuperando gesti e sapienze dei nostri padri e nonni. Per questo in tanti ancora ci comprano, per questo in tanti ancora ci cercano. Per raccapezzarsi in un mondo di zucchine incellophanate”.