Profondo russo
Note comiche e note dolenti, dall’Urss al mondo scorbutico degli esuli. Dovlatov, lo scrittore che coltivava l’assurdo come chiave del mondo
“Io ovviamente non sono Solgenitsin, ma questo mi priva forse del diritto di esistere?”. Scacco matto in tre mosse. Niente di strano: lo scrittore russo Sergei Dovlatov aveva riflessi fulminei, denti per qualsiasi pane, schiocchi di lingua capaci di sfidare ogni retorica, pertanto affrontò senza perdersi in chiacchiere anche la spinosa questione della propria specificità letteraria. Lo fece nel bellissimo e imprevedibilmente comico Regime speciale, romanzo che solo in modo sommario si potrebbe definire “di prigionia”, difendendo la visione del mondo che emergeva in quel testo così suo, così renitente alla tragedia, così pervaso di attonito umorismo, e mangiandosi – in tre mosse appunto – lo spazio che lo separava dalla colossale figura di mister
Apparteneva a un mondo fuori dal mondo, riserva indiana di espatriati russi fino al midollo, russi nonostante tutto
Arcipelago Gulag. “Solgenitsin descrive i lager politici, io quelli penali”, rivendicava dividendo le acque. “Solgenitsin era un detenuto, io un sorvegliante. Per Solgenitsin il campo di prigionia è l’inferno, io penso che l’inferno siamo noi”. Ma come, sempre in Dovlatov, niente è quel che è: la realtà non è univoca, il male non è schematico, la crudeltà è insensata almeno quanto la poesia. E l’uomo, matassa complicata in cui il filo bianco e il filo nero si intrecciano nel profondo, fa quel che può. Così anche in questo enorme, piccolo e anticanonico romanzo umoristico che racconta un campo sovietico di correzione, tutto torna, specialmente ciò che non dovrebbe: un assassino efferato può essere un amico leale come non lo si trova facilmente tra la gente perbene, un uomo che ha messo in salamoia moglie e figli in barile può farsi sorprendere a bocca aperta da un calabrone entrato all’improvviso nella sua baracca, e uno svaligiatore omicida, scavando una trincea, si può asciugare gli occhi colmi di lacrime per aver rinvenuto tra le zolle un microscopico frammento di tazza sul quale intravedere il motivo decorativo di una bambina con un vestitino azzurro.
Forse un po’ meno distante dalle Memorie di una casa morta di Fëdor Dostoevskij – che Dovlatov giudicava lo scrittore più divertente della letteratura russa – questo romanzo tragico, comico e sussultante tra dialoghi focosi e turpiloquenti, avrebbe dovuto essere il primo tra quelli pubblicati da Dovlatov, anche perché fu da lì che ebbe inizio la sua attività narrativa, interrotta nel 1991 per un arresto cardiaco quando lo scrittore aveva 49 anni e neanche mezza possibilità di presagire in che misura il tempo sarebbe stato galantuomo: oggi, in via Rubinstein a San Pietroburgo, dove visse, è stato eretto un monumento in suo onore; nel Queens gli hanno dedicato una “Sergei Dovlatov way”; qualche mese fa alla Berlinale 2018 è stato presentato il magnifico film di Aleksej German Junior che, tra finzione e documentario, racconta sei giorni della vita di questo innamorato di Puskin, inabile alla grande mansione retorica del Dettame Ufficiale e timorato – pare – solo di uno Iosif: Brodskij. Insomma, cari dovlatoviani di tutto il mondo, sospiro di sollievo, dopotutto abbiamo a che fare con uno di quei rari casi in cui, pur con deplorevole ritardo, a uno scrittore vien riconosciuto il suo.
Le sue storie migliori accadono e basta, come la vita, e non chiedono altro, non ci ricattano, non ci ammaestrano
“Io e i miei vivevamo in un disgustoso appartamento in coabitazione”, si legge nel settimo capitolo di Noialtri. “Il lungo e fosco corridoio si risolveva metafisicamente nel gabinetto. La carta da parati accanto al telefono era oscenamente scarabocchiata: era la cronaca deprimente dell’inconscio coabitativo”. Quale frase migliore per capire in un sol colpo il mondo espressivo di Dovlatov? Nota comica, ritratto fulmineo, nota dolente. Prendere la vita per il bavero e ghignarle in faccia anziché colpirla con un pugno: questa è la definitiva misura dovlatoviana, il felicissimo canone-Sergei, l’antidoto-Serëza contro quella “signora permalosa che è il potere sovietico”, potere di cui Dovlatov conosceva bene le bizze più funeste, dato che fino al momento della partenza per New York aveva lavorato come giornalista, era stato licenziato e reintegrato più volte, infine arrestato e accusato di scrivere letteratura non “intonata”.
Prendere la vita per il bavero e ghignarle in faccia anziché colpirla con un pugno: questa è la definitiva misura dovlatoviana
Era inevitabile: come avrebbe potuto resistere a lungo un esistenzialista possibilista come lui, un fallito cronico in perpetuo conflitto con la realtà, uno scettico senza cinismo ma pieno di avversione per la sbobba sovietizzante di cui straripavano i lavandini dei più zelanti sguatteri del Compromesso (titolo di una sua raccolta sulla vita di una redazione sovietica) in un mondo in cui la lingua era ormai tradita, enfatica, manipolata? Dovlatov stava forgiando una scrittura che era l’esatto opposto: scolpita, secca, fulminante, disseminata di sentenze umoristiche, allusioni comiche e smaglianti battute metafisiche. Dovlatov stava assumendo l’umorismo come vero e proprio strumento di conoscenza in un mondo che non tollerava altro che l’obbedienza cieca al rigoroso codice realistico-socialista.
Nel romanzo La filiale, irresistibile dialogo tra sordi ambientato nel 1990 a New York nel Cultural Center for Soviet Refugees, è chiarissimo come in Dovlatov l’assurdo non sia mai un approdo ma, al contrario, un punto di partenza, un approccio, un codice, la chiave del mondo. Dovlatov non voleva afferrare una verità che fugge, ma raccontare la vita che aveva sotto gli occhi. E non desiderava svelare nulla, voleva solo far scricchiolare i Grandi Sistemi Assertivi servendosi di un accordo in minore, di un aneddoto surreale, di un aforisma che lambisse l’implausibilità. Eppure, a volte, la sua risata poteva spegnersi in una smorfia nostalgica e allora ecco che in certe pagine sembra proprio che questo bohémien suo malgrado scrivesse per assicurarsi che il suo passato fosse esistito davvero e fosse esistita la sua patria, la Russia amata, incomprensibile e irriconoscente, la Leningrado “combinazione di frustrazione e di senso di superiorità” che egli sapeva attraversare da un capo all’altro, sobrio o sbronzo, licenziato o riabilitato, “passando solo attraverso i cortili”. Dovlatov è senza dubbio uno scrittore vero perché è appunto questo: un trionfo di soggettività. E come ogni scrittore vero ha indossato i suoi personaggi come maschera di sé, come strumento per comprendere sempre di più la vita.
Ma comprendere sempre di più la vita – lascia intendere Dovlatov – significa comprenderla sempre di meno, o addirittura non comprenderla per niente, e approfittarne per costruire intorno al pozzo scuro di questa incomprensione pattuita una gioiosa e irrazionale metafisica della Lacuna Poetica. “A questo mondo esistono le scienze esatte, dunque esistono anche quelle inesatte. Tra quelle inesatte ci sono le Lettere. Così divenni studente di Lettere. Una settimana dopo mi amava una fanciulla longilinea con scarpe occidentali”. I suoi nessi e le sue considerazioni eludono sempre ogni aspettativa logica, scartano di lato come il bufalo di De Gregori ma non cadono, anzi, ramificano, prolificano. Pagina dopo pagina Dovlatov cavalca questa sua epistème felicemente inefficiente e genera il romanzo dell’unica umanità possibile, sovietica o no ma sempre antieroica, sempre in balìa, saggia e stupida in egual misura, saggia e stupida allo stesso tempo. Niente paura: nessuna astrazione. Nei suoi racconti i fatti sono fatti, i personaggi sono vivissimi e sul palcoscenico delle sue commedie imperversa un cast indimenticabile, composto da fenomenali ipocriti filosofeggianti (un esemplare di perfetto “kinto” – che tradurremo con “lazzarone paraculo” – è suo zio Roman) e da inauditi rigiratori di frittate, da beoni in festa e da scrittori in lutto, da giornalisti sconfortati e da redattori asserviti, da accattoni screanzati e da pittori ancora più screanzati convinti di essere dei geni, e alla fine il miracolo è che sono tutti uguali – uguali nel senso che, geni o imbecilli, in ridente contraddizione con l’idea dell’uomo nuovo sovietico sono tutti uomini vecchi universali: provano i medesimi disgusti, si dannano l’anima per ambizioni simili, sognano le stesse stupidaggini che sogniamo tutti.
Pistola alla tempia, il suo romanzo da salvare è forse Noialtri: 130 pagine di ordigno comico perfetto, grande saga familiare stringata, melodramma condensato di umorismo e di essenzialità come tutte le migliori storie di Dovlatov, storie che accadono e basta, come la vita, e non chiedono altro, non ci ricattano, non ci ammaestrano, non sentenziano ma sono permeate di pietas e di una conoscenza abissale degli esseri umani, anche nei sentimenti più riposti. Si legga ad esempio Straniera, libro che apparve a puntate sul New Yorker nel 1986 e che pare scritto solo per renderci felici, che ha per indimenticabili protagonisti Marusja Tatarovič e le sue disavventure sentimentali col sudamericano Rafael, sullo sfondo di un mondo scorbutico di quegli emigrati russi che solo della Russia parlano, solo la Russia rimpiangono, solo la Russia odiano e amano. Anche qui il quadrifarmaco dovlatoviano funziona a meraviglia per una ragione: non è solo pagina scritta, ma ci sono carne, sangue e vicissitudini. Sono storie di emigrati, trame piantate in asso dal destino, gallerie di ossessivi che all’America sono stati costretti ma all’America non si sono mai voluti adeguare. La loro casa è Forest Hill, a nord del Queens boulevard, Centottava strada, arteria cruciale lungo la quale, se aveste chiesto di Sergei, qualcuno vi avrebbe risposto: “Dovlatov? Quello che non ha la macchina?” Lui, sì, che apparteneva a quel mondo fuori dal mondo, riserva indiana meta-sovietica di espatriati che non perdevano occasione per dimostrarsi russi fino al midollo, russi nonostante tutto. “Noi abbiamo negozi russi, asili, fotografi e parrucchieri russi”, racconta Dovlatov. “Ci sono avvocati russi, scrittori, medici e agenti immobiliari russi. Ci sono gangster e matti russi. C’è perfino un suonatore cieco russo. I latinoamericani non li conosciamo, ma per ogni evenienza li disprezziamo”.
“Grazie alla censura, il mio apprendistato si è protratto per ben diciassette anni”, ha scritto ironicamente nel suo “La valigia”
A New York Dovlatov sarà direttore del Nuovo Americano, piccolo giornale dell’emigrazione destinato a una nicchia di ebrei ex sovietici. La storia di questo foglio a guida dovlatoviana – amata creatura, oggetto di tutte le speranze – fu assai tribolata e segnata dalla difficile competizione con la meglio equipaggiata Nuova Parola Russa. La marcia dei solitari è il libro che racconta l’audace impresa, il cui primo e unico compleanno, festeggiato al ristorante Il Falco, sarà per Dovlatov una delle ragioni di orgoglio più grandi della vita. Tra tutti gli editoriali presenti in questa raccolta, spicca una lettera indirizzata agli amici di Leningrado, una decina di scrittori cui Dovlatov aveva chiesto un racconto. Per ogni testo aveva promesso un paio di jeans. “Vi ho già scritto quanto lavorare qui sia difficile. Il mercato è ristretto, il pubblico è inerte e il salame ha più successo di Nabokov”, ammetteva. E dopo una tipica pausa dovlatoviana, il tempo di un respiro, un istante lunghissimo nel quale riattraversare per l’ultima volta un cortile di una Leningrado dell’anima, chissà se esistita, chissà se esistente, questo padre incredulo di un cittadino americano di nome Nicolas Douly concludeva: “Però siamo vivi. E questo, di per sé, è già un indice di qualità”.