Guido Ceronetti, l'extracomunitario
Il filosofo ignoto, che arrostì tabù e frequentò impresentabili. Quando la sinistra gli dava di “razzista reazionario”
Roma. Tempo fa Janan Ganesh, eclettico editorialista del Financial Times, spiegò perché gli scrittori conservatori sanno trasmettere qualcosa di più rispetto a quelli progressisti: “Una visione oscura degli esseri umani, una certa rassegnazione all’imperfettibilità delle cose, non un conservatorismo politico ma qualcosa di più simile a uno scetticismo e a una preferenza per le cupe verità rispetto alle menzogne ben intenzionate (che spesso equivalgono al politicamente corretto)”. Stava tutta qui la grandezza di Guido Ceronetti, scomparso a 91 anni. Guai a chiedergli: “Come stai?”. Era pedante come tutti i torinesi colti. Si avventurò dove pochi altri hanno osato persino mettere il naso, arrostendo il fondamentalismo islamico (“l’oriente islamico è il braccio, con poca mente, di ogni distruzione”), l’odio per Israele, l’eugenetica, il pensiero che debole è dire poco. Era una sorta di “extracomunitario” della cultura italiana. Amava il Foglio, ci ha dialogato, lo ha letto avidamente, ci ha scritto la rubrica “Preservativi”, una gnosi, come tutto di lui. Frequentò temi e autori sospetti nella cultura italiana.
Iniziò al Resto del Carlino di Spadolini e pubblicò con la Rusconi di Cattabiani e Del Noce, due infami “di destra”, editore in odore di “moderazione” e politicamente scorretto (espressione non ancora saturata). Fu chiamato alla Stampa da Ronchey su idea di Flaiano, in quella Stampa di Bobbio e Galante Garrone (non pochi i mugugni). Quando scrisse la recensione a “Il crepuscolo dello scientismo” di Sermonti e l’Espresso si rifiutò di pubblicarla, Ceronetti se ne andò dal settimanale in cui Umberto Eco aveva già fatto cadere il suo orrido anatema sulla Rusconi. “La parabola del buon reazionario” fu l’articolo del semiologo bolognese contro Ceronetti. Sorte analoga toccò alla sua “Aquilegia” che, pubblicato sempre da Rusconi, fu snobbato. Moravia disse che perseguiva “un discorso antilluministico”, Guido Almansi definì Ceronetti “turpe” e Franco Fortini lo tacciò di “operazione ideologica reazionaria”. E Ceronetti ricambiò le cortesie di sinistra, come su Pasolini (“un imbecille volgare”). Detestava il pathos civile (era poco torinese, in questo) e definì la parola “nazifascismo”, che stava diventando un totem, “un eufemismo politico intollerabile, connota l’inesistente”. Ogni suo grido di allarme, condivisibile o meno, non aveva mai il carattere di insopportabile monito. Scandalo fece il suo articolo su don Beretta, ucciso da uno degli immigrati che aveva accolto: “Un eccesso di benevolenza che finisce per essere una colpa”. In una lettera, Ranchetti, Cases, Paolo De Benedetti e Stajano accusarono Ceronetti di “razzismo”, mentre Cesare Segre disse di “provare vergogna per lui”. Lui, intanto, vedeva lontano e nel 1973 addirittura predisse: “Dell’involucro cristiano delle nazioni resterà ben poco fra qualche anno, eccetto, forse, che nella Russia profonda”. Nell’ottobre del 2000 sostenne che “quindici milioni di musulmani in un’Europa fiocamente, ormai, cristiana con prospettive di raddoppio meritano di essere promossi al rango di problema, religioso e politico. Pensare che lo siano, trattandosi di mondi antitetici, non è un crimine”. Eccome se lo sarebbe diventato, “un crimine”.
Di Ceronetti diedero una splendida definizione Fruttero e Lucentini: “Come accade spesso ai pessimisti radicali Ceronetti ama il marameo”. In effetti aveva qualcosa di inquietante, come una delle sue marionette.