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L'autunno delle tempeste e il senso dell'uomo che aspetta la furia della natura

Marco Archetti

Da Beckett a Plinio il giovane passando per Lansdale

In balia di Godot, l’attesa ci domina. “E noi?” si chiede Estragone mentre, sotto un alberello spennacchiato e in aperta campagna, attende con Vladimiro che si materializzi l’Eterno Assente. “Qual è la nostra parte in tutto questo?”. La nostra parte è produrlo: l’attesa è un tempo vuoto, contumace, un presente (sospeso) così pieno di futuro (già accaduto) che, dal momento in cui lo si conclama – “in arrivo l’uragano Florence, potrebbe provocare danni di proporzioni storiche sulla costa sud orientale degli Stati Uniti” –, determina repentinamente una nuova dimensione, un tempo svincolato che slitta dall’orologio e dal calendario, un arco fuor di sesto che custodisce uno spazio magico e proteiforme, nel quale ciò che ancora non esiste governa su ciò che esiste. L’attesa, che Dio crudele.

 

“E mentre aspettiamo?” chiede Vladimiro. “Impicchiamoci!” gli risponde Estragone. Per carità, nervi saldi… Seppure, durante l’attesa, tutto traballa, nulla è saldo. Il buio genera premonizione, irrazionalità, delirio. E il futuro – assente ma già qui, l’astratto che sconfigge il concreto – è sempre plasmato a immagine del presente (e dei suoi dubbi), a somiglianza del passato (e dei suoi timori), strabico di questa doppia servitù e del sospetto di ulteriori e terribili tratti di imprevedibilità.

 

“Si elevava una nube, ma chi guardava da lontano non riusciva a precisare da quale montagna. Si seppe solo in seguito che si trattava del Vesuvio: nessuna pianta meglio del pino ne potrebbe riprodurre la figura e la forma. Infatti, slanciatasi in su come se si sorreggesse su di un altissimo tronco, si allargava poi in quelli che si potrebbero chiamare rami. (…) La cenere cadeva sulle navi sempre più calda e più densa, vi cadevano anche pomici e pietre nere corrose, spezzate dal fuoco. Una frana dalla montagna impediva di avvicinarsi al litorale. (…) Risplendevano larghissime strisce di fuoco e gli incendi emettevano alte vampate i cui bagliori e la cui luce sfavillavano nel buio. Per sedare lo sgomento, egli insisteva nel dire che si trattava di fuochi lasciati accesi dai contadini nell’affanno di mettersi in salvo”. Plinio il Giovane scriveva a Tacito e gli raccontava così l’eruzione del Vesuvio del 79 d. C. Ma al di là di chi sia questo “lui” (lo zio, ndr), l’aspetto rivelatore del racconto è il rovesciamento che presenta: nell’attesa dell’Irreparabile costruiamo ciò che ancora non è, ma quando l’Irreparabile si presenta, l’incredulità umana fa il suo miracolo: lo nega. Perché prendiamo tanto sul serio la sfida dell’imprevedibile e poi, alla resa dei conti, la respingiamo? Perché non crediamo ai nostri occhi, dopo che abbiamo creduto ai nostri nervi?

 

“Già quel vento bastava a gettare a terra un uomo adulto, ma niente era peggio della polvere. Quando era rossa capivo che arrivava dall’Oklahoma. Ma se era bianca significava che un pezzo di Texas ci stava cadendo sulla testa, e se le folate erano più scure giungevano con buona probabilità dal Kansas o dal Nebraska. Secondo mamma bastava guardarle bene, quelle tempeste di sabbia, per vederci il volto del diavolo. Io non ci giurerei, su questa faccenda del diavolo e compagnia bella, ma so per certo che la sabbia, a volte, sembrava assumere forme vere e proprie tanto da farmi credere che un volto, là dentro, ci fosse davvero”. Scrive così, nello splendido incipit di “Cielo di sabbia”, Joe R. Lansdale. E fa centro: l’attesa – questo vuoto così pieno – è una grande Doglia che partorisce significati sia arbitrari sia altamente simbolici: la catastrofe come castigo, il Diabolico che si rivela; e partorisce la perenne competizione tra l’Ondata emotiva e l’Ondata oceanica: l’uragano Florence ripreso dallo spazio, i danni quantificati prima dei danni, l’adrenalina dell’allerta, un perverso senso di predestinazione…

Temiamo le insondabili forze della natura eppure saremmo in grado di autodistruggerci in ogni momento.

L’inevitabile – scriveva Keynes nel “Treatise on Probability” – non accade mai. L’inatteso, sempre.

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