I diari del vero James Bond, appunti per le spie distratte e maldestre di oggi
“Spia contro spia”. E’ l’autobiografia di Dusko Popov
Biondo era e bello e di austroungarica ascendenza. Ian Fleming se ne innamorò in un casinò, quando lo vide arrivare e puntare cinquantamila dollari a baccarat – la somma che veniva richiesta per una missione segreta –, lo studiò ammirato e decise che il suo James Bond dovesse assomigliare a lui. Dusko Popov, il vero James Bond, era serbo, figlio di un industriale, cresciuto in una famiglia aristocratica, allevato da una balia inglese. “Spia contro spia”, edito da Sellerio, è un libro che raccoglie i diari di Popov, l’infanzia, la giovinezza a Friburgo, il controspionaggio, le disavventure americane. E’ autobiografico e la sola scrittura, lo stile leggero e frizzante, bastano per comprendere quali dovessero essere le qualità di una spia nel secolo scorso. Nome in codice Triciclo, Popov è ricco, è bello, è colto e pieno di ideali. Un dandy votato ai servizi segreti con i quali entra in contatto a Friburgo, dove era andato a studiare.
Nella città universitaria circondata dalla foresta nera vede crescere il Partito nazionalsocialista tedesco. E’ animato da sentimenti democratici, diventa antinazista, ma è un damerino ironico, snob e sprezzante e in pubblico si permette di pronunciare frasi contro Hitler. Popov è costretto a scappare e torna a Belgrado dove, qualche anno dopo, viene reclutato da un ufficiale dell’Abwehr, l’intelligence militare tedesca. Non per abnegazione dei suoi ideali, né per soldi, il serbo accetta. Si arruola e prende subito contatto con gli inglesi del’MI6, Military Intelligence section 6. La sua vita è doppia in ogni aspetto, a tratti tripla, dal lavoro alle donne riesce, in perfetto equilibrio, a saltare da un mondo all’altro: “Qual è la linea di demarcazione tra l’essere un playboy e fingere di esserlo?”, si chiede tra le pagine del libro. Lui nel fingere riesce sempre a essere, con grazia. E con queste qualità costruisce la sua carriera. La spia però non piace agli americani che non ne apprezzano la troppa disinvoltura, la voglia di divertimento e di lusso.
Popov è esagerato, proprio come Fleming ha voluto James Bond. Negli Stati Uniti il serbo arriva con le referenze dei servizi segreti inglesi, per i quali ha svolto un ottimo lavoro, depistando l’esercito tedesco e fornendo informazioni ai britannici. All’Fbi, dove regna l’austerità dello storico capo John Edgard Hoover, l’ambiguità di Popov non piace. L’intelligence americana è diffidente e quando la spia serba segnala che a Pearl Harbor la flotta americana potrebbe subire un attacco da parte dei giapponesi, non viene creduto. D’altronde a condurlo a quella constatazione era stata un’intuizione suffragata da qualche soffiata. Per l’Fbi non è un’informazione, non ci sono prove. Dusko è un viveur, un vanesio, viene preso per mitomane e così, nel 1941, quello che il presidente Roosevelt chiamò il giorno dell’infamia, gli americani avrebbero potuto evitarlo. Popov abbandona Washington, è tormentato, va a Lisbona e avrà la sua rivincita qualche anno dopo, quando fornisce ai tedeschi, per i quali formalmente continuava a lavorare, delle coordinate sbagliate riguardo allo sbarco degli alleati in Normandia. La vita girovaga, la cultura, i piaceri, i diari di Dusko Popov raccontano un’altra storia. Quella di un tempo in cui le spie erano istruite, provenivano da ambienti eleganti, erano poliglotte e impeccabili. Oltre a insegnarci che il vero James Bond era sì un viveur astuto e votato all’edonismo, ma era serbo e non britannico, per quanto per gli inglesi nutrisse una fortissima passione, mostra anche come è cambiato l’identikit degli agenti segreti. Una lezione in tempi di spie maldestre e incaute.